Solvitur ambulanda
N.B.: Il presente blog non costituisce testata giornalistica, né ha carattere periodico, essendo aggiornato in base a come pare a me. Pertanto, non può essere considerato in alcun modo un prodotto editoriale, ai sensi della Legge n. 62 del 7-03-2001.

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domenica 11 dicembre 2011

L'Italia del dopo-sultanato Berlusconi e l'Europa delle banche e della finanza

Su lavoro e welfare non si intravede nulla di buono, dacché i vertici, imponendo la pastoia dell’austerità, hanno deciso di ammainare la bandiera dell’occupazione e lo stato sociale , quel poco che ne rimane, è un lusso da ridurre drasticamente. Per non parlare poi dell’intervento del governo sulle pensioni e in particolare sull’aumento dell’età pensionabile, uno schiaffo morale e materiale. Si chiede di lavorare più a lungo senza però offrire serie e solide infrastrutture sociali e si chiedono i sacrifici prima e subito, con lo stereotipo della sensibilità femminile e le lacrime di coccodrillo del ministro Fornero in TV, poi si parlerà degli investimenti. Passato il momento iniziale di apprezzamento dello stile di Monti dopo anni di offesa alla nostra dignità da parte del Sultano Berlusconi, ora passiamo alla realtà dei fatti. Le pensioni più basse non verranno salvate dall’inflazione e grazie all’aumento della benzina e dell’IVA si vedrà un aumento dell’inflazione e un’influenza negativa sui commerci, che in stragrande maggioranza in Italia si sviluppano su gomma. Bisogna invece sollevare con veemenza la questione dell’Ici della Chiesa cattolica, opporsi per l’assenza di una seria patrimoniale e considerare che l’Ici sulla prima casa che verrà rimessa dall’attuale governo avrà sulle nostre tasche un peso maggiore rispetto al periodo in cui veniva applicata prima della sua abolizione. Ora si chiamerà Imu, imposta municipale unica, rimodulata centrifugando insieme la tassa sui rifiuti (aumentata) e altre imposte sui servizi locali. E sappiamo che questa tassa locale imposta dalla manovra di governo andrà direttamente nelle casse dello Stato centrale, lasciando a bocca asciutta Regioni, Province e Comuni, già stritolate dall’infame patto di stabilità che blocca fondi di investimento approvati ma mai stanziati. Come mai poi che nessuno sta deplorando l’insufficiente azione di tassazione sui capitali scudati?

Siamo in una situazione di transizione verso terre ignote sul piano istituzionale, con un esecutivo che è tecnico nella composizione della squadra ma pienamente politico nella volontà di riconfigurare il modello sociale del Paese. Questo governo sa di non avere il problema delle urne ed è perfettamente consapevole di fare una politica impopolare, sapendo che c’è il pieno appoggio delle istituzioni in questo, dal Presidente della Repubblica alle istituzioni europee. C’è un chiaro progetto che ha previsto fin dall’inizio di bastonare determinati  settori sociali, anche al limite della soglia di povertà e della sopravvivenza, per salvaguardarne altri, decisamente messi meglio. Insomma, un governo non eletto dal popolo ha firmato in Europa un accordo che trasforma l’Italia in un protettorato tedesco.

Passiamo ora a parlare della necessità di correttivi di equità alla manovra del governo sull’editoria e la carta stampata, in una situazione, per i lavoratori poligrafici, di aggravio delle condizioni del settore, già pesantemente colpito per gli effetti generali della crisi. Anche i giornalisti, come tutti i lavoratori dell’editoria, stanno pagando un prezzo alto alla crisi in termini di posti di lavoro e precarietà. Ma come noi tutti ben sappiamo, il settore sta rischiando anche da parte della mano pubblica, con l’intenzione di voler tagliare i fondi a circa un centinaio di testate non solo politiche, ma anche di cooperative e di opinione. Con questo non solo si rischia di incidere negativamente sulla libertà di stampa e il pluralismo democratico dell’informazione, ma se si mettono a casa 4000 lavoratori, lo Stato spenderà più soldi per i loro ammortizzatori sociali.

La crisi attuale dell’Europa è data dall’esaurirsi di un percorso fondato sul neoliberismo e la finanza. Negli ultimi vent’anni il volto dell’Europa non è stato solo moneta unica, ma anche liberalizzazioni più o meno selvagge, bolle speculative ed esplodere delle disuguaglianze. Alla crisi finanziaria, le autorità europee hanno dato una risposta irresponsabile, imponendo politiche di austerità e tagli di bilancio, che ora saranno anche inseriti nei trattati. I risultati sono che la crisi non l’hanno pagata i soggetti che l’hanno causata, in primis le banche, ed ora la crisi finanziaria si sta estendendo a tutti i Paesi. L’Europa può sopravvivere solo se cambia strada e prende il volto del lavoro, dell’ambiente, della democrazia, della pace e dell’integrazione. Ecco i quattro obiettivi da cui partire:

1)      Ridimensionare la finanza. La finanza, all’origine della crisi, deve essere messa in condizione da non devastare più l’economia; tutte le transazioni finanziarie devono essere tassate, una regolamentazione più stretta deve impedire le attività speculative rischiose; oltre a mercato e moneta servono politiche comuni in altri ambiti, che sostituiscano il Patto di Stabilità, riducano gli squilibri e cambino la direzione dello sviluppo; in campo fiscale occorre armonizzare la tassazione, spostando il carico fiscale dal lavoro alla ricchezza e alle fonti energetiche non rinnovabili; la spesa pubblica deve essere utilizzata per difendere il welfare, estendere le attività e i servizi pubblici; la produzione e il consumo devono essere orientati alla sostenibilità; gli eurobond devono essere introdotti per finanziare la riconversione ecologica dell’economia, con investimenti capaci di creare occupazione e tutelare l’ambiente.

2)      Aumentare l’occupazione, tutelare il lavoro, ridurre le disuguaglianze. Dopo anni di politiche che hanno creato disoccupazione, precarietà e impoverimento, ora serve mettere al primo posto la creazione di un’occupazione stabile, di qualità e la tutela dei redditi più bassi.

3)      Proteggere l’ambiente

4)      Praticare la democrazia rappresentativa, sociale, partecipativa e deliberativa. Commissione Europea e Banca Centrale esercitando poteri senza rispondere ai cittadini, mentre il Parlamento Europeo non ha ancora un ruolo adeguato. Le esperienze di questi ultimi decenni della società civile, con i movimenti, le mobilitazioni, i forum sociali, le proteste degli indignados, hanno bisogno di una risposta istituzionale. L’inclusione sociale e politica dei migranti è poi una condizione imprescindibile di promozione della convivenza civile; fare la pace. L’Europa è ancora responsabile della presenza di armi nucleari e di un quinto della spesa militare mondiale. Con gli attuali problemi di bilancio, i tagli alla spesa militare sono indispensabili.

L’Unione Europea non parla al lavoro. I 27 meno 1 hanno sottoscritto austerità. Tutti nella stessa direzione: tagli e rigore, per soddisfare le richieste del sistema finanziario. Le banche escono vincitrici, perché non solo hanno ricevuto l’assicurazione che non saranno chiamate a pagare, ma avranno anche soldi a basso tasso d’interesse dalla Bce, che potranno prestare a tassi da usura. L’Fmi entra in Europa con forza, perché i prestiti  agli Stati passeranno per questa istituzione. Questa Europa non sa parlare ai cittadini. Che cosa risponderanno i governi, difensori delle banche, alle inquietudini di sindacati e lavoratori, sottoposti al ricatto della paura del crollo economico e della disoccupazione crescente in un’Europa che si appresta, nel 2012, a perdurare nella recessione? Il pensiero unico persiste nel voler difendere un modello che si è già rivelato perdente.

domenica 16 ottobre 2011

La crisi ha messo in dubbio il modello di sistema. Ci sono paesi che hanno avuto gravi responsabilità nel creare questa crisi. Alcune politiche, a lungo difese dai mercati finanziari e dalle istituzioni finanziarie internazionali, hanno contribuito alla diffusione della crisi in tutto il mondo. Ora si è giunti a dubitare del fatto che i mercati abbiano la capacità di autoregolarsi. I mercati finanziari stanno spingendo per un ritorno alle vecchie maniere e in una situazione di elevato debito pubblico si tagliano i servizi essenziali per i lavoratori. In un mondo segnato da elevati livelli di disoccupazione, le politiche di austerità pretese dai mercati porteranno a livelli di disoccupazione ancora maggiori e questo, a sua volta, provocherà una pressione verso il basso sui salari.
C'è una cecità di natura politica che porta in tempi come questi a tagliare sulla spesa sociale. Ma ci sono politiche che possono migliorare l'efficienza dell'economia e promuovere una crescita di lungo periodo. Costringere le imprese a pagare i costi che impongono all'ambiente, ad esempio. La regolamentazione ambientale porterebbe ad un'aria più respirabile e ad un'acqua più sicura. Tassando le attività cattive invece delle buone (come il lavoro e i risparmi) si genera reddito e si aumenta l'efficienza. I titoli finanziari tossici americani hanno inquinato l'economia globale e hanno imposto costi enormi sulle spalle di altri. Esiste un'ampia gamma di imposte sul settore finanziario che potrebbero generare un ammontare considerevole di entrate fiscali e portare ad un'economia più stabile. Le tasse sui derivati del petrolio e sulle attività che provocano emissioni di anidrire carbonica potrebbero incrementare l'efficienza energetica, fornendo le risorse per ridurre il deficit pubblico.
Il consolidamento fiscale non deve pesare sulle spalle di chi ha sempre sofferto per il malfunzionamento del sistema, ma piuttosto sulle spalle di chi ha beneficiato di questo malfunzionamento di sistema. Il sistema economico è governato da un insieme di regole che favorisce alcuni giovcatori alle spese di altri. Negli ultimi 30 anni siamo stati influenzati dall'idea che si dovevano attuare regole che interferissero il meno possibile con i mercati. Cio che i sostenitori della deregolamentazione e del libero mercato hanno creato è stato un sistema che potrebbe essere chiamato "surrogato" del capitalismo, il cui elemento essenziale è sempre stato dato dalla socializzazione delle perdite e la privatizzazione dei guadagni. Questo surrogato è strettamente legato al capitalismo delle grandi imprese sostenuto e promosso dai repubblicani americani. E chi paga i regali fatti alle aziende sono sempre i cittadini più vulnerabili - consumatori e/o contribuenti - attraverso la tassazione o l'aumento dei prezzi dei beni acquistati.
Quattro anni dopo l'esplosione della bolla speculativa americana sul mercato immobiliare, che ha trascinato nel baratro l'economia globale, il prezzo dei misfatti non è ancora stato pagato. La produzione rimane ben al di sotto del suo potenziale in molti paesi industrializzati e alle perdite va sommata la cattiva gestione del rischio prima della crisi. A parte i periodi di guerra, nessun governo è stato mai responsabile di perdite così ingenti come quelle causate dalla cattiva condotta del settore finanziario.
Ogni società si dovrebbe fondare su un senso di coesione sociale e di fiducia , su un senso di equità. La crisi ha spazzato via il contratto sociale e tutti gli elementi che garantiscono il corretto funzionamento di una società, con le banche che, attuando pratiche ingannevoli e sostenendo che prendere delle precauzioni era responsabilità di altri, si sono rese responsabili di perdite di miliardi. E sembra che i governi, invece di correggere le iniquità, vogliono mantenerle.
Quel che è peggio è che è stato chiesto ai cittadini di subire politiche di austerità, maggiore disoccupazione e tagli ai servizi pubblici per pagare i debiti generati dal cattivo comportamento della finanza e per proteggere i grandi azionisti e i possessori di titoli delle banche.
Bisogna introdurre regole rigide ma buone e bisogna ristabilire un senso di equilibrio. Il settore finanziario dovrebbe servire l'economia, non viceversa.
Oggi abbiamo lo stesso capitale umano e fisico che avevamo prima della crisi. Non c'è ragione nel continuare a sottoutilizzare le risorse. L'alternativa è possibile, ci sono politiche economiche che possono aumentare l'uguaglianza, l'occupazione e i salari. La moderna tecnologia ha la capacità di accrescere il benessere di tutti i cittadini, ma vediamo come, invece, si è creata un'economia in cui la maggior parte dei cittadini vede peggiorare la propria condizione anno dopo anno.
Le sfide che i governi, le società e le economie devono affrontare sono enormi. Siamo sull'orlo del baratro.

***

Uniti nelle nostre diversità, uniti per il cambiamento globale, dobbiamo chiedere una democrazia globale, un cambio di regime. Il G8 deve essere sostituito dall'umanità intera. Le istituzioni non democratiche a livello globale devono essere il nostro nemico: il Fondo Monetario Internazionale, l'Organizzazione Mondiale del Commercio, le banche multinazionali, il G8, il G20. Non bisogna più permettere a queste istituzioni di continuare a gestire le nostre vite senza il nostro consenso.
Nasciamo tutti uguali. Se le istituzioni internazionali non riflettono questo devono essere abbattute. Forze globali influenzano la nostra vita: il nostro lavoro, la nostra salute, il nostro diritto alla casa, la nostra educazione e le nostre pensioni. L'ambiente è distrutto dall'inquinamento. Il mondo è disseminato da guerre internazionali e vigono il traffico internazionale di armi, della droga e delle risorse naturali. Stiamo perdendo il controllo sulle nostre vite. Questo deve finire, perché i cittadini del mondo si devono riprendere il controllo sulle decisioni che li riguardano e li influenzano a tutti i livelli, dal globale al locale.

***

C'è un termine che si sente pronunciare spesso in televisione: bailout. Significa "salvataggio" di qualcuno, nel nostro caso di banche e imprese in difficoltà. Si realizza fornendo abbondante liquidità a chi è in bancarotta o sta per andarci. Negli Stati Uniti il salvagente sappiamo che è stato lanciato 3 anni fa per salvare le grandi imprese automobilistiche e le banche con erogazioni a fondo perduto e prestiti a tassi ridicoli o addirittura a tasso zero. Il sistema finanziario nell'immediato è stato salvato. Il problema però è che le enormi risorse spese dagli stati per il salvataggio delle banche devono essere rimborsati e hanno creato dissesti nei conti pubblici ai quali ora i governi pongono rimedio con misure restrittive che colpiscono i ceti più deboli.

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Ci siamo resi conto che non viviamo nel migliore dei mondi possibili e pertanto dobbiamo ritenerci autorizzati a considerare delle alternative.
Hanno detto che siamo violenti. Ebbene, noi ci consideriamo violenti come il Mahatma Gandhi. Ci consideriamo violenti perché vogliamo cambiare l'attuale corso delle cose. E cos'è la nostra violenza puramente simbolica paragonata alla violenza messa in atto per sostenere il funzionamento del sistema capitalista mondiale?
Hanno detto che siamo dei perdenti, ma i veri perdenti sono quelli che a Wall Street hanno dovuto essere soccorsi da centinaia di miliardi di denaro.
Noi teniamo al bene comune, alla natura e alla conoscenza minacciate dal sistema.
Hanno detto che siamo dei sognatori, ma i sognatori sono coloro che pensano che le cose possano andare avanti indefinitamente così. Non siamo dei sognatori, bensì rappresentiamo il risveglio da quello che non è un sogno, è un incubo.
Non distruggiamo nulla, ma dimostriamo come il sistema si stia gradualmente distruggendo da solo.
Ci dicono che non si può difendere il vecchio Stato sociale, perché non ci renderebbe competitivi, oppure ci dicono semplicemente che "bisogna fare così" e basta. Ma è venuto il momento di capovolgere le coordinate.

martedì 11 ottobre 2011

Imparai a scriverti in giorni più felici ed ogni lettera era come una scheggia che strappavo dal mio cuore, un frammento appena ritagliato per il mosaico della vita.

I lunghi, tristi anni passano ancora e ancora spargo i miei fragili fiori e sussurro parole d'amore che nessuno ascolta.

domenica 9 ottobre 2011

Casa mia andrebbe vivacizzata un attimo, perché c'è come un silenzio di morte...forse io stesso sono già morto e non me ne sono ancora reso conto...la morte...certe volte ci penso, la beata fine, la pace eterna, il fatto di non dover lottare più, sgomitare, soffrire, incazzarsi, il fatto di non dover più rendere conto a nessuno, amare qualcuno e non essere ricambiati...ben poco senso acquista la vita così...allora ben vengano la pace e la quiete del silenzio.
Odio questa vita miseranda e la tremenda vacuità che sento intorno a me e che ottenebra la mia mente e offusca il mio sentire, odio quella sottesa angoscia che mi assale certe sere dopo il crepuscolo o certe domeniche.
Prendi una persona piena di sogni e di belle speranze per il futuro, fai tesoro della sua buona volontà ma tarpa le sue ali con le quali vorrebbe spiccare il volo per raggiungere gli obiettivi prefissi, che non arriverà mai a tangere; nel giro di due o tre anni otterrai una persona svuotata di senso, di vitalità, di fiducia, di serenità e di forza proprio come mi sto sentendo adesso.
La vita e la mia città natale, che sto iniziando ad odiare, sono state avare con me, è stato sempre tutto un dare da parte mia per poi ricevere solo lo scarto di quello che era stato passato al setaccio.
Perché non riesco proprio ad essere una persona normale come tutti gli altri, da dove nasce tutta questa mia fatica nel relazionarmi serenamente, pacatamente e senza sforzi - che sembrano a me titanici - con il mio prossimo? Mi sento mancante di attrattiva, solo al mio destino ed abbandonato da chi non ha più tempo da dedicare per le cose belle della vita.
Non ce la faccio più ad andare avanti così, veramente, avrei voglia di voltare pagina...o di farla finita.

sabato 1 ottobre 2011

Questa esistenza oppressa dal soddisfacimento dei bisogni materiali impedisce alle volte ai nostri cuori e alle nostre menti di essere in comunione e in sintonia.
Non saprei stavolta, forse per cercare di avere maggiore umiltà, vorrei provare ad osservare la situazione da un punto di vista diverso e pensare che magari non è sempre e soltanto colpa del carattere di alcuni, ma anche del mio.
Ti prego di perdonarmi per ogni mia omissione nei tuoi confronti e per qualche mio pensiero su di te che qualche volta è stato un po' negativo, ma non per cattiveria, rabbia o invidia, bensì forse per gelosia.
Ti sento cambiato...ma ho nostalgia dei bei vecchi tempi andati, quando eravamo più spensierati e mi sforzo di convincermi che tutto scorre, ma a volte non ci riesco. Anch'io mi sento cambiato, ma poi faccio mentalmente un paragone fra me e te e allora mi rispondo che non è vero o che non me ne rendo conto. Ma forse è più accettabile la prima ipotesi, dacché sono rimasto fermo ad una indefessa e sfegatata idolatria pagana di stampo fanciullesco dei miei idoli, proprio come in passato.
Ma ora devo cercare di fermare la mia mano e il mio pensiero, per non apparire troppo tedioso.
A proposito, non chiedermi il significato intrinseco di ciò che ho scritto, non saprei risponderti. Forse non sono stato proprio io a scrivere, bensì una delle mie altre personalità in un prepotente tentativo di emergere alla luce e comunque credo che la stessa abbia volutamente lasciato dei lati oscuri.
Mi sento molto legato a te perché sei l'unica persona che posso veramente chiamare AMICO.
Essendo certo del fatto che mi sarà difficile, anzi pressoché impossibile perderti, lasciami almeno dire che spero che questo nostro legame divenga ancora più saldo.
Assistiamo alla ricomparsa in società di termini quali bisogno, giustizia sociale, imperialismo capitalista. Tutti termini che erano stati cancellati con la caduta del Muro di Berlino e che invece oggi tornano ad apparire non solo nei cortei dei lavoratori, ma anche nei mezzi di comunicazione.
Sarò sempre persuaso del fatto che il comunismo, pur sconfitto nella sua forma materiale in cui si era concretizzato nel Novecento, non ha però ancora smarrito il senso profondo che determina la sua esistenza e che lo ha reso in ogni caso sempre adatto a determinare il futuro dell’umanità. E se la borghesia ha impiegato centinaia d’anni per imporre il proprio dominio (divorando poi velocemente fraternità, uguaglianza e libertà), al riscatto del comunismo certo potrebbero essere concesse in futuro altre prove di realizzazione, che oltrepassino i confini temporali del XX secolo per renderlo un neocomunismo del XXI secolo adattato e adattabile alle nuove sfide che ci impongono le congiunture e il mondo d'oggi.
In realtà oggi Marx è tornato così tanto d’attualità perché mai erano venute meno le ragioni che supportavano la sua teoria, perché il tardocapitalismo porta comunque dentro di sé i germi della propria crisi e della propria autodistruzione. Cosicché l’unica speranza di sopravvivenza della specie umana è in un suo superamento, pena la propria estinzione, in un mondo logorato ed avvelenato dall’arroganza di un sistema economico che è come un corpo morente tenuto forzatamente in vita.

***

L'atteggiamento più corretto credo che sia quello di credere veramente a coloro che fanno ciò che dicono e non quello di dimostrare alle altre popolazioni di saper fare grandi discorsi di solidarietà, i quali infine  non si concretizzeranno mai.

domenica 25 settembre 2011

Niente da dichiarare?




Il Belgio. Uno stato recente, costituitosi nel 1830 in seguito ad una rivoluzione che lo portò ad affrancarsi dai Paesi Bassi, riconosciuto poi ufficialmente nove anni dopo. Uno Stato suddiviso in due regimi linguistici. Fin dall'inizio del XX secolo la storia del Belgio è stata sempre più dominata dalla crescente autonomia delle sue due comunità principali, fiamminga e vallone. A conferma di ciò, a partire all'incirca dal 1970, non esistono più partiti nazionali in Belgio, ma solo partiti fiamminghi o valloni. I reiterati tentativi di stabilire partiti nazionali, producono risultati, in termini di voti, inferiori all'1% dell'elettorato. Per questo, il panorama politico mostra un sistema duale che riflette le due comunità dominanti. Dopo le elezioni politiche del giugno 2007 queste divisioni politiche si sono ulteriormente accentuate, tanto da trascinare il paese in una crisi istituzionale particolarmente grave.  La crisi politica ha trovato il suo culmine dopo le elezioni del 2010: da allora il Belgio non ha ancora un governo ufficiale, anche se c'è da dire che il senso civico, civile e morale dei belgi, anche se non aiuta a superare questa impasse, riesce comunque a far mantenere un certo ordine in una situazione, che altrove avrebbe prodotto l'anarchia, con tutti gli strascichi che ne conseguirebbero. In Belgio, l'argomento etnico è profondamente legato a quello linguistico e si registrano consistenti tensioni di natura politico-economica tra i due gruppi etnici. La Vallonia, regione mineraria di precoce industrializzazione e principale motore dell'economia belga fino agli anni settanta, ha sofferto profondamente della crisi del settore siderurgico e si è affacciata alle soglie del XXI secolo con esigenze di riconversione industriale, con un livello di sviluppo inferiore a quello dei Paesi limitrofi e con un elevato tasso di disoccupazione. Senza dubbio le Fiandre costituiscono attualmente l'area forte del Paese dal punto di vista economico, ed è proprio questo il motivo per cui il Vlaams Belang, partito fiammingo di estrema destra razzista e xenofobo avoca a sé la tutela e la rappresentanza della comunità fiamminga e rivendica l'indipendenza delle Fiandre, oltre ad una stretta regolamentazione dell'immigrazione.




Ho visto proprio ieri sera Niente da dichiarare?, film di Dany Boon, che è anche uno dei due protagonisti, un film che vuole scherzare e farci riflettere sui pregiudizi imperanti e i regionalismi che non ci permettono di vedere lucidamente le cose, e cioè che in fondo siamo tutti uguali. I belgi vengono chiamati dai francesi "mangiamolluschi" e i francesi vengono chiamati dai belgi "mangialumache", ma alla fine, i due doganieri belga e francese, dovendo lavorare a stretto contatto nel primo distaccamento mobile della dogana franco-belga pattugliando le strade di campagna di frontiera in seguito alla soppressione del loro posto di dogana fisso, imparano a capire che le diversità sono sempre relative e che se ci si adatta e ci si conosce meglio, si può rimanere molto sorpresi dalle peculiarità degli altri. E chissa che questo film non farà riflettere anche voi sul fatto che il genere umano è unico, il pianeta è di tutti e che l'umanità non è divisa in razze, bensì in due categorie: gli onesti e i malfattori.

domenica 18 settembre 2011

Odio gli indifferenti. Credo che "vivere vuol dire essere partigiani". Chi
vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è
abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli
indifferenti.
L'indifferenza è il peso morto della storia.
L'indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma
opera. È la fatalità; e ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i
programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che si
ribella all'intelligenza e la strozza. Ciò che succede non è tanto dovuto
all'iniziativa dei pochi che operano, quanto all'indifferenza, all'assenteismo
dei molti.
Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga,
quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare,
lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire
al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare.
La fatalità che sembra dominare la storia non è altro appunto che
apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo.
Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma
nessuno o pochi si domandano: "se avessi anch'io fatto il mio dovere, se
avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe
successo ciò che è successo?" Ma nessuno o pochi si fanno una colpa
della loro indifferenza, del loro scetticismo, del non aver dato il loro braccio
e la loro attività a quei gruppi di cittadini che, appunto per evitare quel tal
male, combattevano, di procurare quel tal bene si proponevano.
Odio gli indifferenti anche perché mi dà noia il loro piagnisteo di eterni
innocenti.
Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.


(Antonio Gramsci)

Ce l'ho sinceramente con chi vuole mettere in discussione lo strumento dello sciopero. Due settimane fa c'è stato lo sciopero della CGIL e ho sentito dire da qualcuno che manifestare non serve a nulla. Quindi, secondo questo punto di vista, si dovrebbe rinunciare a quello che forse è l'unico mezzo rimasto per dimostrare la propria rabbia, indignazione, frustrazione, per poter gridare il proprio "io non ci sto" e volere che le cose cambino, anzi, essere parte integrante di quel processo di cambiamento tanto sperato, l'unico mezzo rimasto per tentare di difendere i diritti, ogni giorno calpestati, dei lavoratori.
Per me ha ancora un senso dirsi partigiani al giorno d'oggi, nella triste Italia sprofondata nel berlusconismo, ed è per questo che ho voluto riprendere le parole di Gramsci, scritte nel 1917 ma sempre e comunque attualissime in riferimento alla situazione politica e sociale che stiamo vivendo.
Non ci sto e mi chiamo fuori da un popolo divenuto succubo, che non trova la forza di ribellarsi e che all'ultimo ha incaricato le donne a manifestare, all'incirca un milione, per dire che era ora di farla finita con questo regime carnevalesco e sessista-machista, e che sarebbe ora di tornare ad occuparci delle nostre quotidiane, più importanti ed impellenti preoccupazioni.
E ce l'ho con voi che, prima avete contribuito a far salire al potere quel personaggio che ci ritroviamo, poi adesso, che sentite che il vento inizia a tirare da un'altra parte, vi scagliate a parole contro di lui e lo criticate, ma non muovereste mai un dito per contribuire a cambiare le cose, gente senza idee, ideali, coscienza politica e una visione politica della realtà che sia degna di essere etichettata come "democratica" e all'insegna della pacifica convivenza civile multiculturale. Reazionari e xenofobi, non meritate nemmeno di dirvi cristiani, voi che vi riterreste tali - e ve lo dice uno che si dichiara agnostico.

domenica 11 settembre 2011






Mi ritengo brutalmente offeso quando sento dire da persone senza nemmeno una punta di adeguata preparazione culturale e letteraria che Kafka era una personalità disturbata. Si liquida in fretta e furia e si disconosce l'opera di questo autore. E' pur vero che "La metamorfosi" è un racconto sconvolgente, però, data la sua assoluta originalità per l'epoca, è da considerarsi un assoluto capolavoro. E il mio intento in questa sede è quello di tentare di spiegare il racconto de "La metamorfosi" e Kafka, con l'auspicio che magari, alla fine, questo autore e la sua opera, visti con un'ottica diversa e finalmente cambiata, possano essere apprezzati un pochino di più.

Quando Gregor Samsa si svegliò una mattina da sogni inquieti, si trovò trasformato nel suo letto in un immenso insetto. Era disteso sul dorso duro come una corazza e, se sollevava un poco il capo scorgeva il proprio ventre convesso, bruno, diviso da indurimenti arcuati, sulla cui sommità la coperta, sul punto di scivolare del tutto, si tratteneva ancora a stento. Le numerose zampe, miserevolmente sottili in confronto alle dimensioni del corpo, gli tremolavano incerte dinanzi agli occhi. "Cosa mi è successo?" pensò. Non era un sogno. La sua stanza, una vera stanza da essere umano, soltanto un po' più piccola, stava tranquilla fra le quattro familiari pareti. Sopra il tavolo - sul quale, tolto dalla valigetta, era sparso un campionario di tessuti (Samsa era commesso viaggiatore) - era appeso un ritratto che di recente egli aveva tagliato da una rivista illustrata e messo in una graziosa cornice dorata. Raffigurava una signora che, in cappello e stola di pelliccia, sedeva eretta e tendeva all'osservatore un pesante manicotto di pelliccia in cui era scomparso l'intero avambraccio [...]

Tutto accade così, per caso, senza una logica precisa, senza una razionalità. Semplicemente, succede. Un giorno Gregor si sveglia e scopre di essere diventato un enorme insetto. L’irreale irrompe nella realtà e la stanza in cui si rifugia l’insetto diventa una metafora dell’esistenza.
Franz Kafka fa emergere lucidamente la dimensione dell’ assurdo, del non senso, del non riuscire a cogliere le direttrici attraverso cui la realtà, spesso inspiegabile e imprevedibile, si sviluppa.
L’idea che una mattina ci si possa svegliare e ritrovarsi insetto è di per sé geniale. La metamorfosi, però, è anche altro. Questo breve racconto presenta spunti molto interessanti.
Anzitutto c’è un personaggio, Gregor Samsa, che vive una trasformazione innaturale, drammatica, da incubo. E continua, per i diversi mesi che lo vedranno sopravvivere in quelle condizioni, a pensare a quotidianità come il lavoro, il denaro, la casa, la famiglia da mantenere. Quasi fosse un prevedibile incidente di percorso quello che gli è capitato. Gregor, da insetto, conserva inalterata la sua mente umana, la logica, i sentimenti e le sue angosce imprigionate nella nuova, orrenda fisicità.
Particolarmente efficace è anche la descrizione della famiglia al centro della vicenda narrata. Gli obblighi del protagonista verso genitori e sorella rendono l’atmosfera asfissiante già prima della metamorfosi. Gregor Samsa vive una condizione paralizzante quando ancora dispone del pieno possesso delle sue caratteristiche umane.
I familiari, dinanzi a quel fenomeno terribile e impensabile, si chiudono atterriti in sé stessi e alla fine si identificheranno mentalmente con l'insetto. Pertanto abbiamo il protagonista che, divenuto insetto, conserva la sua mente umana, mentre la famiglia, pur consevando la sua fisicità, smarrisce la mente e regredisce allo stadio dell'animalità.

In realtà, una logica c’è, è una delle chiavi di lettura di questo romanzo ed è la storia che si cela dietro questo racconto, che altro non sarebbe se non una trasposizione figurativa della vita dello stesso autore. Un primo indizio di tutto ciò sta proprio nel nome del protagonista: Gregor Samsa, un nome che non è altro che il crittogramma di Kafka (dove la S e la M stanno al posto della K e della F). Ma la trasposizione si vede anche leggendo la vita dell’autore. Una vita segnata dalla tubercolosi. Un’esistenza amara che spinge lo stesso autore a rifugiarsi in un’armatura invisibile fatta di indifferenza e distacco.

La metamorfosi in questo caso avviene ravvicinando il protagonista allo stadio animalesco da cui il nostro genere proviene, ma, secondo la seconda chiave di lettura di questo racconto, può essere trasposta nella regressione, anche culturale, che coinvolge la società e la maggior parte dei suoi membri. Una società regredisce quando si schiaccia sul presente, quando vive solo l'attimo, quando si annulla l'amore per il prossimo in luogo dell'amore egolatrico per sé, che diventa preponderante, riducendo ad egoismo ogni atto della vita. Forse Kafka presentiva che era in atto l'emergere del fenomeno della dimensione animalesca su base collettiva. L'io della società si rattrappisce. Con l'emergere, su base collettiva, della dimensione animalesca, si può affermare che fosse in atto un mutamento antropologico, quindi una metamorfosi, in un'epoca da poco uscita dal diciannovesimo secolo, appena entrata nel primo conflitto mondiale, che da lì a poco avrebbe esperito il dilagare dei fascismi in Europa e l'avvento di una seconda guerra mondiale.

Il regista spagnolo Carlos Atanes ne ha fatto un cortometraggio dal titolo The metamorphosis of Franz Kafka. Da notare, in quest’ultimo titolo, l’uso di “of” e non di “by”, a significare proprio il doppio senso biografico e letterario.
Questo cortometraggio è un libero adattamento del racconto, infatti il regista ha preso la decisione di non limitarsi troppo al testo, sfruttando, ad esempio, una magnifica location rappresentata da una biblioteca con più di 60.000 volumi e infarcendo la storia di riferimenti e allusioni alla vita privata e familiare dell'autore, specialmente riguardo ad Hermann Kafka, il padre, con il quale Franz ebbe sempre un rapporto molto complicato. Quindi c'è un identificarsi tra la famiglia della fiction (i Samsa) e la famiglia della realtà (i Kafka), con sullo sfondo i primissimi eventi che fanno presagire l'avvento del nazionalsocialismo in Europa Centrale, regime che Kafka non fece in tempo a conoscere, ma che anni dopo distrusse la sua famiglia.




lunedì 5 settembre 2011

Mestieri di cui ci sarebbe ancora bisogno



Una volta facevano il mestiere di spazzacamini molti piccoli, età media 6-7 anni. Lo strumento simbolo di questo mestiere era la raspa.
Oggi non è più così, ma il mestiere di spazzacamino non è affatto dimenticato. Al giorno d'oggi esiste un'associazione di fumisti e spazzacamini, che organizza anche corsi professionali per imparare il mestiere.
Chi sono oggi gli spazzacamini, e che mestiere svolgono? Sono tecnici qualificati per la manutenzione e il controllo degli impianti fumari. Spesso ci dimentichiamo che i nostri impianti di riscaldamento, dai camini alle caldaie, condominiali o autonome, hanno una canna fumaria, elemento importante per riscaldarsi in sicurezza.
Ci sono poi paesi all'avanguardia, tra cui la Germania, che è stato il primo paese in Europa ad emanare una legge che regolamentasse gli impianti fumari.
Vent'anni fa questa professione era, con la sua caduta in disuso, ormai sconosciuta e, ancora al giorno d'oggi, con la sua rinascita e riqualifica, è ancora relativamente poco conosciuta, una professione però oggi altamente specializzata, che deve lavorare con normative tecniche sviluppate anche dalla categoria professionale stessa, a tutela non solo della qualità del lavoro svolto, ma anche della qualità delle canne fumarie.
I rappresentanti di categoria affermano che, ancora oggi, dopo quello del circense, il mestiere del moderno spazzacamino è tra i più pericolosi. Gli spazzacamini hanno polizze assicurative piuttosto onerose. Gli incidenti sono causati dal fatto che, la maggior parte dei tetti in Italia non ha ancora un'adeguata messa in sicurezza, anche se questo aspetto sarebbe obbligatorio per legge. Pertanto, le norme e le leggi ci sono, ma non vengono rispettate. Si calcola che in media ogni anno ci sono 10.000 interventi dei vigili del fuoco sui tetti e le canne fumarie a causa della fuliggine che prende fuoco per via della mancanza di un'adeguata pulizia delle canne fumarie stesse e questo dà origine ad un costo sociale, se ci si pensa, piuttosto elevato.

Nella crisi dell'odierno mercato del lavoro mancano a livello nazionale le figure professionali di panificatori. Sembra che i giovani non vogliano fare questo mestiere, anche se il presidente della Assopanificatori ricorda che queste figure professionali arrivano a guadagnare anche 2-3 mila euro mese, tra paga base, straordinari, lavoro notturno, festività e premi di produzione.
Le difficoltà a reperire manodopera per i panifici sono comuni alla maggior parte del territorio nazionale.
Secondo stime delle Associazioni di categoria mancano, nei forni italiani, dai 3.000 ai 4.000 addetti; questo nonostante la crisi del settore che ha visto il diminuire dei consumi pro-capite e l’avanzare dei prodotti industriali. In un momento di forte crisi occupazionale, dunque, le aziende paradossalmente hanno difficoltà a reperire figure professionali. Mancano soprattutto i giovani italiani che, in ragione del particolare regime di lavorazione, che si svolge di notte, preferiscono altre occupazioni, anche meno redditizie. Certo i tempi di impiego vanno a scapito della vita sociale notturna, privilegiata dai giovani; anche se occorre dire che oggi le nuove tecnologie consentano ritmi di lavoro più contenuti per cui gli orari si sono di molto modificati e concentrati, consentendo cicli di produzione che possono essere anche avviati in modo più articolato.
La paga base per un fornaio è di circa 1.500 euro lordi al mese per 14 mensilità, cui vanno aggiunti una serie di elementi flessibili, in ragione dei territori, dei periodi dell’anno e delle aziende come: straordinari, lavoro notturno, festività, premi di produzione, elementi che possono portare il reddito anche a superare i 2.000 euro mese con punte, in alcuni casi eccezionali e per le figure più professionalizzate, che si avvicinano ai 3.000, sempre lordi.
Lo scalpore suscitato, soprattutto in riferimento al reddito, è testimonianza di un pregiudizio culturale anacronistico, tutto italiano, che colpisce tutti i lavori manuali nel nostro paese: spesso, come nel caso dei fornai, di antiche tradizioni e saperi e con grandi potenzialità imprenditoriali.
Un mestiere che non si improvvisa e richiede grande professionalità e conoscenze complesse che si apprendono negli appositi corsi di formazione organizzati dalle Associazioni di categoria.
Rielaborare una nuova e moderna cultura del lavoro, vuol dire tornare a valorizzare l’impresa come luogo formativo per eccellenza, eliminare la dicotomia fra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Spezzare la nefasta equazione per cui il lavoro manuale è destinato a chi non studia e, nel contempo, chi studia non può fare un lavoro manuale.
Finché si considereranno marginali i “cosiddetti” lavori manuali o artigianali, non potremo mai avere un mercato del lavoro veramente libero e ricco di opportunità per tutti.

Il problema è che i giovani non conoscono i mestieri tradizionali. Mancano ebanisti, falegnami, maestri orologiai, tagliatori di pietre e incastonatori. C'è bisogno persino di giardinieri.
Bisognerebbe fare opera di orientamento già nelle scuole medie e affascinare i ragazzi.
Molte di queste figure stanno scomparendo. E la loro estinzione mette a rischio il nostro Made in Italy, che non è fatto solo da stilisti di moda.
Tanti giovani non si avvicinano a questi mestieri perché non li conoscono. E perché tante famiglie ostacolano certe scelte. Ma deve essere chiaro che sono necessari impegno, fatica e costanza, oltre a un po' di talento.
L'elenco dei mestieri tradizionali che stanno oggi fortemente cadendo in disuso, ma di cui in Italia ci sarebbe ancora bisogno, è lungo.

Il fabbro.
Un mestiere tipico della civiltà contadina, sia per la produzione di attrezzi da campagna che per ferrare i quadrupedi.
Per quest’ultima attività ci voleva bravura, serietà e oculatezza, altrimenti si metteva a repentaglio l’incolumità della bestia, l’interesse del proprietario e, soprattutto, il proprio buon nome.

L'apicoltore.
Diventare apicoltore non é una decisione ma é una passione che spinge verso il mistero della natura e della sua capacità di perpetrarsi ed evolversi.
Molti professionisti sono prima divenuti apicoltori amatoriali. Il loro passaggio alla professione, come scelta di vita, presenta tanti rischi e incertezze. Per essere "iniziati" all'apicoltura servono, oltre alla passione, le api, l'attrezzatura, un luogo idoneo.
Per localizzare una zona adatta al posizionamento del nostro apiario, dobbiamo tener conto della biologia degli insetti. Necessitano di fioriture nell'arco delle stagioni entro 3 km. di distanza (non qualsiasi fioritura, ma specie produttrici di polline e nettare abbondante), una sorgente d'acqua, un luogo soleggiato (in estate magari riparato da qualche pianta a foglia cedue), non troppo ventilato.

Il falegname.
I falegnami del passato lavoravano tutto a mano. A mano segavano le assi, a mano inchiodavano.
Quando si trattava di lavori pesanti, come portoni, armadi, eccetera, bisognava mandare giù grosse viti, che dovevano penetrare profondamente nel legno, con il cacciavite a mano.
E finché si trattava di legno d'abete poteva anche passare, ma quando si trattava di castagno, noce o altro legno bisognava mettercela tutta, specie se erano viti grosse e lunghe. Di sudore ne colava parecchio.

Il ceramista.
Un tempo il mestiere doveva rispondere prioritariamente alle esigenze della vita quotidiana.
Tali esigenze erano quelle di conservare, cuocere, trasportare ogni tipo di bevande, liquidi e alimenti. Ogni oggetto aveva dunque una sua destinazione d’uso ben definita.
Il ceramista per realizzare i suoi oggetti impastava la terra, la sgrassava con segatura e con combustibili minerali e modellava la pasta con le mani e il tornio, oppure usando degli stampi, o ancora per fusione.
Il tornio del ceramista è solitamente verticale ed è costituito da un’asse che collega un piatto circolare superiore con un disco inferiore in legno che viene fatto ruotare con i piedi, dandogli la velocità necessaria per far “montare” il pezzo.

Nel 2010 nel nostro Paese si contavano 2,2 milioni di disoccupati e almeno 7-8 milioni di precari. Non c'è, si può dire, famiglia con prole adulta, di qualunque ceto, dalle Alpi alla Sicilia, in cui non si ponga il problema lavoro, soprattutto per i giovani. E in un periodo come questo, dove la disoccupazione aumenta, ci sono molte professioni che ancora tirerebbero e che permetterebbero di trovare facilmente uno sbocco lavorativo e stipendi anche molto elevati.
La nostra società ha sempre meno bisogno di lavoro per produrre merci e servizi, e tuttavia, mentre pone nel reddito la base della cittadinanza e della stessa vita delle persone, condanna chi ne è privo all'angoscia quotidiana. E questi condannati sono ormai tanti, crescono di giorno in giorno. Occorre cominciare a separare la percezione del reddito dalle attività produttive. Non possiamo più attendere lo sviluppo che creerà finalmente la piena occupazione. Questa è una nostalgia utopica dei vecchi sviluppisti. Oggi saremmo in una diversa condizione se l'opposizione organizzata del movimento operaio avesse potuto utilizzare l'enorme incremento della produttività del lavoro dell'ultimo mezzo secolo per un dimezzamento della giornata lavorativa. Meno lavoro per ognuno, più occupazione per tutti. Ma così non è stato e i rapporti di forza attuali, la cultura dominante, non rendono praticabile il progetto.

domenica 4 settembre 2011

Lo spirito estone





“Un centinaio di anni fa alcuni aristocratici baltici, grandi viaggiatori, discussero su quale città, vista dal mare, fosse la più bella. C’erano tre candidate: Napoli, Rio de Janeiro e Tallinn. Anche se nell’ultimo decennio sono stati costruiti a Tallinn diversi palazzi di notevole altezza, il panorama della città, con le sue numerose torri e guglie in stile gotico e barocco, è intatto. La vista dal mare è forse l’opera d’arte più preziosa che la nostra città può offrire. Solamente il dipinto “La danza della morte” nella chiesa di San Nicola potrebbe farle concorrenza”
Juri Kuuskemaa, storico dell'arte



L’ Estonia è situata sulle rive orientali del Mar Baltico. Come i finlandesi, gli Estoni discendono dai popoli ugro-finnici. Un tempo i popoli ugro-finnici occupavano tutti i territori boscosi dell’Europa settentrionale e orientale, poi le grandi ondate migratorie dei Balti e degli Slavi assimilarono le popolazioni locali. Questo processo di assimilazione è durato praticamente fino ai giorni nostri, in quanto ancora nel corso di questo secolo abbiamo visto sparire sotto ai nostri occhi, popoli ugro-finnici come gli Ingri, i Voti e i Livi, questi ultimi assorbiti dai Lettoni.
Gli Estoni sono dunque ciò che resta di uno dei popoli sedentari più antichi del nostro continente, e sono fieri di essere aborigeni della propria terra, che hanno abitato per quasi diecimila anni. Avendo visto cedere all’assimilazione tanti altri popoli della loro stessa famiglia, gli Estoni, consci della propria identità, considerano un dovere mantenere vive una lingua e una cultura tanto antiche.
In cosa consiste, in particolare, la specificità di questo popolo, quali sono i tratti che lo distinguono dalle altre genti europee?
E’ evidente che nessuna etnia può considerarsi “pura”, e che non vi sono culture isolate; ad ogni genesi etnica partecipano molte differenti correnti, e nel suo farsi storico un popolo assorbe per secoli elementi appartenenti ad altre tradizioni. Così è avvenuto anche per gli Estoni che, per lo meno durante gli ultimi centocinquanta anni, hanno coscientemente formato e sviluppato propri rapporti culturali col resto dell’Europa.
Ciononostante, pur nei continui scambi con i vicini, gli Estoni hanno sempre attribuito una funzione essenziale alla lotta per la sopravvivenza in quanto popolo al mantenimento e allo sviluppo della lingua. Ecco perché sono particolarmente sensibili ai pericoli che minacciano la lingua, come la russificazione, cui si sono opposti negli ultimi decenni all’interno dell’impero sovietico. Per l’anima estone la principale virtù della nuova indipendenza è quella di avere allontanato questo pericolo, di avere prodotto nuove e migliori condizioni per proteggere la lingua e la cultura nazionali.
Gli Estoni sono fieri, inoltre, di possedere una delle raccolte di poesia popolare più imponenti d’Europa. Nel secolo scorso, quando la poesia popolare era ancora viva, il pastore Jakob Hurt organizzò in Estonia un’opera di raccolta di questi testi che vide la partecipazione non solo degli intellettuali, ma anche di moltissimi contadini e semplici cittadini.
La poesia popolare rivela che gli Estoni non sono mai stati un popolo guerriero. Le epopee storiche sono meno sviluppate nella cultura dei gruppi sedentari e coltivatori; non mancano invece le fantasie amorose, i canti sul lavoro o sui modi di vita.
L'epopea nazionale, il poema Kelevipoeg, scritto verso la metà del secolo scorso da Kreutzwald, presenta parti eroiche piuttosto artificiose, mentre riflette perfettamente la vita spirituale di un popolo contadino.
Tutto ciò viene confermato dalla storia recente; il processo che ha condotto all’indipendenza, alla liberazione dall’impero sovietico cui l’Estonia era stata annessa con la forza, si è svolto in modo del tutto pacifico ed è confluito in un movimento chiamato “la rivoluzione  cantata”. Una delle manifestazioni più stimolanti dello spirito nazionale, infatti, sono sempre state le Feste del canto, alle quali gli Estoni partecipano in modo spettacolare.
Un’altra differenza importante tra gli Estoni e molti altri popoli europei è che essi non hanno mai diviso il mondo in bianco e nero, la loro logica tradizionale non riposa su opposizioni. Gli antiche dèi estoni non erano particolarmente minacciosi, si poteva sempre arrivare ad un accordo con loro e talvolta anche prenderli in giro. Gli spiriti cattivi non erano affatto onnipotenti, piuttosto stupidi, ragion per cui una persona intelligente riusciva sempre a cavarsela e a riparare alle loro malefatte.
Il censimento del 1896 ci informa che il 96% degli estoni sapeva all'epoca leggere e scrivere, con una percentuale addirittura superiore per le donne che per gli uomini: in nessun'altra parte dell’Europa occidentale o dell’ex impero russo si ritrovano cifre così alte. Dall’evoluzione storica risulta che l’Estonia appartiene innanzitutto alla sfera culturale scandinava, nonostante dal Duecento i suoi governanti siano stati dapprima agli ordini religiosi - la cui lingua era il latino – e poi la classe dirigente locale che parlava tedesco. La lotta per la lingua e la cultura indigena cominciò verso la metà del secolo scorso, e il risultato del “risveglio nazionale” fu l’affermazione dell’identità estone, divenuta dominante
Oggi, in un’Estonia nuovamente indipendente, i venti del vario mondo non trovano più ostacoli; anzi, la funzione degli intellettuali sarà quella di vigilare attentamente per impedire che l’Estonia si lasci trascinare nell’orbita della malattia dilagante in Europa: l’americanizzazione. Il pericolo esiste ed è un rischio per questa popolazione completamente nuovo.
In ogni caso c’è un rimedio: essere aperti a tutto il mondo, imparare da tutti e fondere tutti gli apporti in una cultura specifica, organicamente adatta ai bisogni umani e piena di energie vitali.



Tallinn, capitale della Repubblica di Estonia, è una città dai tratti spiccatamente medioevali, sulla costa orientale del Mar Baltico. Nonostante un passato turbolento, caratterizzato da dominazioni straniere e guerre,  incendi e rivolte, la città è riuscita a conservare un centro storico intatto. Tallinn non è solo la capitale del Paese, ma anche importante nodo di comunicazioni e sede portuale.
Tallinn, è anche la città in cui risiede quasi metà della popolazione dell’intero Paese. L’ultimo censimento (marzo 2008) registrava poco più di 403.000 abitanti all’anagrafe cittadino. Tallinn fa registrare uno strano primato. Tra le capitali europee è quella con la più alta percentuale di abitanti non appartenenti all’Unione Europea: quasi il 30%! Questo fenomeno demografico è dovuto al fatto che dopo il raggiungimento dell’indipendenza, molti russi sono rimasti senza però ottenere la cittadinanza estone.
Tallinn è anche una degna capitale dal punto di vista culturale. Molti i teatri, i musei e le sale da concerto.
Ovunque si percepisce un’aria di profondo rinnovamento, che si manifesta in una effervescente  vitalità edilizia. Il volto di Tallinn negli ultimi dieci anni è cambiato a ritmi impressionanti.
La Città Vecchia di Tallinn ricopre solo una piccola parte della capitale estone, ma racchiude nelle sue viuzze le maggiori attrazioni di natura sia turistica che culturale. Entrata a far parte nel 1997 del Patrimonio Mondiale dell’Unesco, è circondata da un’antica cinta muraria e si estende ai piedi della Collina di Toompea, sede, tra l’altro, del Parlamento Estone.
Il centro geografico della Città Vecchia corrisponde alla Piazza del Municipio (Raekoja Platz). Qui si trova anche la Farmacia del Municipio, una delle più antiche d’Europa risalente al lontano 1422.
Scendendo lungo la Vene (l’antica via dei mercanti russi) troviamo una deliziosa viuzza conosciuta come il Passaggio di Caterina (Katariina Kaik), uno dei luoghi più suggestivi e romantici di tutta la Città Vecchia. Uno scorcio di medioevo assolutamente da vedere.
La Pikk (Via lunga) era la porta al mare dalla Città Vecchia. E’ fiancheggiata dalle abitazioni in stile medioevale della borghesia mercantile di origine tedesca. Alcune risalgono al XV secolo.
La Porta di Viru e la torre denominata Margherita la Grassa segnano lo sbocco verso il mare della Città Vecchia. La costruzione della torre risale al 1520 ed è la più imponente di tutta la cinta muraria. Le pareti raggiungono in alcuni punti lo spessore di sei metri. Venne restaurata nel 1978 ed oggi ospita Il Museo Marittimo Estone.
La collina di Toompea sorge su un altipiano calcareo sul lato sud orientale della Città Vecchia. A Toompea si trova forse la più bella torre difensiva di Tallinn chiamata Kiek in de Kok (dal basso tedesco “sbirciare in cucina”). Costruita nel 1475, alta poco meno di 40 metri, era un validissimo e strategico punto di osservazione per i soldati. Oggi è sede di un museo che ripercorre alcune delle tappe più significative della storia di Tallinn.
Toompea offre ai turisti diversi punti panoramici con vista sulla Città Vecchia e oltre, fino al porto. Ideale per fare fotografie e per riprese.
Ad est della Città Vecchia, la maggior attrazione turistica è sicuramente il Parco di Kadriorg (la “valle di Caterina”) con all’interno il bellissimo Palazzo di Kadriorg. L’area verde di oltre un chilometro, con alberi di castagno e querce è frequentata da abitanti e turisti prevalentemente in estate, ma è molto suggestiva anche in autunno sotto il profilo cromatico. Il Palazzo di Kadriorg in stile barocco venne costruito nel  1718 per volere di Pietro il Grande  in onore della moglie Caterina e progettato dall’architetto italiano Nicolò Michetti. Al suo interno, nelle sue importanti sale si trovano dipinti di artisti italiani, tedeschi e olandesi, porcellane e sculture per un totale di quasi mille opere. Il lungomare di Pirita Tee è una lunga strada costiera di circa quattro km che guarda verso il Golfo di Finlandia. Ideale per camminate, per fare jogging o pedalate, prosegue poi nella Spiaggia di Pirita.
Ad ovest della Città Vecchia  troviamo la località Rocca Al Mare, dove si trova un museo a cielo aperto che ricostruisce la vita agreste in Estonia fino alla fine del XIX sec., con ricostruzioni di case (oltre una settantina) e situazioni di vita quotidiana. Il museo si estende su una superficie di oltre 80 ettari e deve il nome al proprietario che possedeva il terreno originariamente.




mercoledì 31 agosto 2011

La Via Baltica





“Tutta l’infelicità degli uomini viene da una sola cosa: di non saper starsene in riposo in una stanza”.
Blaise Pascal

Vilnius - Riga - Tallinn. La Via Baltica in verità non esiste, è una mia invenzione. Scusatemi veramente se sto diventando monotematico, terribilmente monotematico, ma il mio horreur du domicile e la mia conseguente volontà di fuga non mi fanno ultimamente pensare ad altro, a distanza ormai di quasi un anno da questo ultimo viaggio in quel lembo di Centro Europa (non propriamente Europa dell'Est e non ancora Europa del Nord), che mi ha fatto sviluppare questa sorta di fissazione, di amore viscerale per quella zona geografica, attaccamento affettivo tutto fatto di intime e personali suggestioni che non riesco assolutamente a delineare a parole.

Si narra che il viaggio perfetto è circolare, con la gioia della partenza e la gioia del ritorno. Ma per me non è così. E' vero che ho un'anima duale, con una parte di me che vorrebbe essere sempre in movimento e una parte di me che brama invece più la staticità e la ciclicità, ripetitività degli eventi. Ma in me non c'è mai stata gioia insita nel rientro a casa, c'è sempre stata la cosiddetta sindrome da rientro, che talvolta, invece di durare solo per pochi giorni, è addirittura durata per settimane, se non per mesi, mentre la mia vita scorreva monotona e uguale in luoghi che sono ormai diventati pieni solo di ambasce.
Guy de Maupassant diceva che il viaggio è una specie di porta attraverso la quale si esce dalla realtà come per penetrare in una realtà inesplorata che sembra un sogno; Tarkovskij diceva che il viaggio attraverso i paesi del mondo è per l'uomo un viaggio simbolico e che ovunque vada è la propria anima che sta cercando. Per questo l'uomo deve poter viaggiare, mentre Gore Vidal, in maniera più leggera, afferma: "Strana questa cosa dei viaggi, una volta che cominci, è difficile fermarsi. È come essere alcolizzati.". Henri David Thorau si diceva stupito per la capacità di resistenza, dei suoi vicini, che si confinano tutto il giorno nei loro negozi o nei loro uffici, e questo per settimane e per mesi, anzi, praticamente per anni, e di sé stesso diceva: “Il mio desiderio di conoscere è discontinuo, ma il desiderio di rigenerare la mente in atmosfere sconosciute, esplorando zone non acora percorse dalle mie gambe è perenne e costante…è la grandiosa ed improvvisa rivelazione dell’inadeguatezza di ciò che sino a quel momento abbiamo chiamato Conoscenza, la scoperta che vi sono in cielo ed in terra assai più cose di quante ne sogna la nostra filosofia.”.

Ci sono poi i fautori di una linea quasi più orientale, oserei dire quasi taoista, che è quella del viaggio interiore, del viaggio dentro sé stessi, seguendo quello che affermava Gauthama Buddha dicendo "Non puoi percorrere la via prima di essere diventato la via stessa", e ho voluto raccogliere alcune citazioni:

- "Ero uscito solo per fare una passeggiata ma alla fine decisi di restare fuori fino al tramonto, perché mi resi conto che l'andar fuori era, in verità, un andare dentro" John Muir da "La mia prima estate sulla Sierra"
- "Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi". (Marcel Proust)
- È quando il corpo è tra quattro mura che lo spirito fa i suoi viaggi più lontani. (Augusta Amiel-Lapeyre)
- Il viaggio è nella testa. (Jean Baudrillard)
- L'unico viaggio irrinunciabile è l'esplorazione dell'io. (Alessandro Morandotti)
- Chi si sente a suo agio in casa, non va peregrinando lontano. I molti viaggi di scoperta nel mondo dimostrano l'insoddisfazione universale. (Friedrich Rückert)


Ma il mio preferito di sempre è Bruce Chatwin, autore che ho imparato da subito ad amare ai tempi dello studio universitario, perché c'è stata una immediata consonanza tra i concetti che esprimeva attraverso le sue riflessioni scritte e la mia indole, il mio io.
Chatwin era quello che diceva che il viaggio non solo allarga la mente, le dà forma.
Chatwin riteneva che tutte le nostre attività sono legate all'idea del viaggio e che il nostro cervello ha un sistema informativo che ci dà ordini per il cammino, e qui sta proprio la molla della nostra irrequietezza. L'uomo ha scoperto per tempo di poter spillare tutta questa informazione d'un colpo, manomettendo la chimica del cervello. Di poter volare via in un viaggio illusorio o in un'ascesa immaginaria. Di conseguenza gli stanziali hanno identificato Dio con il vino, con l'hashish o con il fungo allucinatorio; ma di rado i veri vagabondi sono caduti in preda a questa illusione. Le droghe sono veicoli per la gente che ha dimenticato come si cammina.

 
Spero che sia uno degli ultimi post riguardo ai paesi baltici, anche se attualmente non posso garantirvi nulla. Nel frattempo vi ripropongo alcune foto scattate da me: la mia vista del retro della Chiesa di S. Anna di Vilnius, con le sue guglie ad un tardo tramonto delle 23 inoltrate, viste da Užupis. E' l'immagine più vivida che in questo momento conservo di quel viaggio del giugno 2009, conclusosi in una notte bianca piena di eventi e manifestazioni che hanno riempito tutto il centro città per festeggiare il fatto che, in quell'anno, la capitale lituana è stata capitale europea della cultura; vi propongo uno scorcio, a Riga, di uno dei palazzi Art Nouveau di Ėjzenštejn, padre architetto dell'omonimo famoso regista russo nativo di questa città; vi propongo la vista del Mar Baltico sulla Baia di Tallinn, dal parco di Rocca al Mare.  Immagini che si soffermano su significativi particolari e che vanno al di là delle, seppur belle, ormai banali vedute panoramiche di città.

Mi è stato chiesto quali delle tre capitali è la più bella o quale delle tre mi è piaciuta di più. Non lo so, è difficile rispondere, in quanto ci sono sostanziali differenze tra una città e l'altra.
A Riga, secondo lo stereotipo maschile, ci sono le ragazze più belle, è la città più "russa" delle tre, con un bel centro storico, meritevole, che ricorda il passato anseatico e la fa rassomigliare molto alle città del nord della Germania come Lubecca; Tallinn, la più nordica e "scandinava", essendo molto vicina alla Finlandia (anche i tratti somatici delle persone cambiano), oltre ad essere la più ricca delle tre, viene considerata un piccolo gioiellino con il suo equilibratissimo mix di moderno e antico (il suo centro storico medioevale, parte alta e parte bassa, un tratto di mura ancora intatte); Vilnius è quella più piccola e provinciale, un po' più povera, con la vita forse meno cara, e quella dove forse si incontra la gente più cordiale (con questo non voglio però disquisire sul livello di cordialità degli altri due popoli baltici, il mio era un ragionamento di massima), molto barocca e diversa dalle altre due. E comunque tutte le città sono accoglienti, se poi a uno interessano le atmosfere un po' grigie dell'architettura realista sovietica basta muoversi dal centro e andare in periferia per trovare i palazzoni costruiti ai tempi dell'URSS.
Estremizzando e creando delle sorte di paradossi, si potrebbe in sintesi dire:

- Tallin, la più "scandinava"
- Vilnius, la più "polacca"
- Riga, la più "russa"

E comunque ognuno le deve visitare e farsi la propria idea, preparandosi a trovare la meraviglia anche nelle piccole cose, partendo con un bagaglio leggero e pratico e cancellando con un colpo di spugna tutti i tristi luoghi comuni a sfondo sessuale maschile per prepararsi alla flânerie.
Se ci andate d'estate e fa comunque particolarmente freddo, troverete che per le persone è normale mangiare all'aperto con coperte di lana indosso che vengono fornite dai camerieri.
A Vilnius assaggiate la cucina tipica, calorica e a base di patate e zuppe. La birra è veramente ottima e vi consiglio di assaggiare anche la vodka lituana. Vilnius è una città piena di fiori e giardini curatissimi e il cielo è di un azzurro così intenso da rendere quasi rotonda la prospettiva del paesaggio. Ovunque rigore mitteleuropeo, con le case dai tetti spioventi. Pochi itinerari ma precisi, tra questi le tre croci sulla collina che svettano tra le nuvole rapide e il cielo azzurrissimo, con la città adagiata ai loro piedi. Nel mezzo chiese piene di oro e di ex voto, donne che recitano il rosario con una lingua diversa ma con la stessa identica cantilena delle nostre nonne, piccole piazze e cortili dentro palazzi pieni di fiori. Tagliate il centro in due per salire sulla collina di Užupis, la repubblica della felicità come recita la costituzione affissa sul muro, a metà tra Christiania e Montmartre, in realtà e molto più semplicemente un quartiere diviso in due: da un lato case belle e di ex fricchettoni probabilmente, dall’altro case di legno, cadenti, fabbriche chiuse con le finestre murate che arrivano fino all’autostrada; il tutto a ridosso di un parco sereno e tranquillo, con l’accademia di belle arti alla quale si accede solo superando un ponte, un fiume da percorrere in canoa, ragazzi che ballano, fidanzati che si baciano.
Tra una città e l'altra si percorrono per chilometri e chilometri strade perfettamente dritte con boschi a destra e a sinistra, interrotti solo ogni tanto da campi coltivati e pascoli.
Riga è la città più grande dinamica, con molto turismo e con le persone che camminano veloci per la strada, sembra una piccola Russia del giorno d'oggi, non solo per le scritte in cirillico ovunque o per il fatto che il più delle persone parli russo, ma anche per una atmosfera probabilmente dovuta alle strade enormi che si intersecano sempre perfettamente a scacchiera. La vita si svolge nel centro antico, un fiorire di guglie, di chiese ortodosse, torrette e palazzi dalle facciate ricamate a dai tetti spioventi. Riga sembra purtroppo essere una sorta di Sodoma post URSS e di questa immagine sembra però non riuscire a liberarsi totalmente. Le ragazze sono ancora più smaliziate e si aggirano in gruppo vestite succinte, manifestano una sicurezza e una emancipazione che sanno di nuovo: sono belle, ben vestite – globalizzate – si aggirano in due o in tre, frequentano locali costosi con turisti maschi allocchi adescati per strada. Riga è una citta dal cuore architettonico liberty. I palazzi, uno accanto all’altro, sono un rigoglio di fiori, draghi, stucchi coloratissimi e fregi dall’intaglio perfetto. Ogni facciata è diversa dall’altra e seguendo la strada le forme e i motivi si alternano fino a diradarsi ma mai completamente. Più entriamo nel centro, invece, e più i tetti e le guglie si appuntiscono. E’ un continuo via vai di gente che si contrappone alla solitudine e al silenzio di alcune stradine secondarie: i turisti sono molti ma il centro è abbastanza grande perché si disperdano in un attimo.
Tallin è come due città in una: la moderna Estonia che ha adottato l’euro e che si porta dietro i postumi architettonici della Russia e la città vecchia, un continuo saliscendi che ha come apice tre terrazze verdi a picco su guglie e sul porto. E’ una città bellissima, sì, con un centro storico incredibilmente affascinante, che paga però il fatto di essere piccolo. Prendete un tram e dirigetevi verso il Kumu, il Museo di Arte Contemporanea, immerso nel parco verdissimo di Kadriorg. E’ una zona bella ed interessantissima, un’ulteriore faccia di una città a metà tra la Russia, l’Europa medievale e la Finlandia. Tallinn è anche la città delle vecchie fabbriche rimesse a nuovo e un distretto creativo con ristoranti, locali e negozi.


Insomma, ci sono le atmosfere che cambiano, le facce delle persone che cambiano da una città all'altra, e poi ci siamo noi, che viviamo e ci mettiamo alla prova tra un fregio architettonico, una sfumatura del cielo e una persona che cammina per strada. Qui non si tratta solo di viaggiare, bensì di fare esperienze minimali, di bellezza e non solo, per arricchire il nostro bagaglio di vita quando torneremo a casa.

domenica 21 agosto 2011

Per chi volesse farsi una cultura musicale



Penso che chi frequenta questo blog abbia compreso, da alcuni elementi ivi contenuti, che ho una predilezione per i paesi baltici. Mi sto accingendo in questa sede a parlare di cose che riguardano la Lettonia, e per questo intendo fare prima un preambolo nel tenativo di far affievolire quel certo tipo di cliché della gente (soprattutto maschile, ma non solo) che sono purtroppo legati a questo paese e alla sua capitale.
La Lettonia è un paese stupendo e la sua capitale, Riga, è una città cosmopolita ben diversa dalla realtà più suggestiva e sgargiante che caratterizza il resto del Paese. Il mio intento è quello di farvi conoscere la Lettonia al di fuori dei luoghi comuni andando soprattutto oltre quello che è il triste primato della rinomata capitale Riga divenuta – con l’ingresso dell’Unione Europea – la capitale mondiale del turismo sessuale rubando di prepotenza il primato a località ben più note collocate in Thailandia, a Cuba e in Brasile. Tale primato è stato coadiuvato da una concomitanza di fattori che, miscelati tra loro, fanno si che le ragazze imparino purtroppo fin da giovani ad usare e sfruttare il proprio corpo come strumento utile per ottenere vantaggi:
• Voli low cost caratterizzano i collegamenti da Riga verso innumerevoli destinazioni europee, ivi compresa l’Italia che rimane collegata con voli estremamente economici delle compagnie Ryanair e Air Baltic;
• La Lettonia, è un paese di popolazione di pelle bianchissima con donne dai lineamenti formosi e slanciati, e ciò rende il posto più allettante rispetto ad altri;
• Il basso livello salariale – il più basso mai riscontrato in per un paese occidentale, dove per esempio una cameriera in una qualsiasi città lettone al di fuori dalla capitale non percepisce più di 140 LAT al mese (poco meno di 200 euro);
• L’ingresso della Lettonia nell’Unione Europea ha permesso alle ragazze russe autoctone e lettoni di riversarsi a fiumi nei night club di mezza Europa con estrema facilità, non occorrendo più per loro il visto per viaggiare in occidente. Metà delle ragazze impiegate nella prostituzione in Irlanda sono lettoni, i night club e i “procacciatori” di Svizzera, Italia e Germania sistematicamente attingono dalla Lettonia ragazze tramite allettanti annunci sui giornali locali, una fiumana di ragazze lettoni si riversa allo sbaraglio in giro per l’Europa – Italia compresa – sfruttando nella maggior parte dei casi il sesso come mezzo di sopravvivenza. Tale pratica ha reclamizzato non poco il Paese e le ragazze lettoni, ragion per cui i consumatori di sesso sono indotti a giungere direttamente alla fonte.
• Riga, si è talmente specializzata nel turismo sessuale che persino la guida cittadina distribuita gratuitamente dall’ufficio promozione e turismo della capitale non è altro che un opuscolo pubblicitario ricco di offerte a sfondo puramente sessuale, quali servizi intimi, massaggi erotici, camere private, striptease con servizi annessi: a consultare la guida cittadina sembrerebbe che tutto il business della capitale giri intorno al sesso a pagamento.
Per via di tutto ciò, la capitale pullula di stranieri – soprattutto italiani – i quali la sera ad ogni angolo vengono sistematicamente fermati e indirizzati in qualche posto o locale a sfondo
sessuale, dove immancabilmente vengono spennati con prezzi e servizi appositamente creati ad arte per loro, spendere 100 euro in cinque minuti per molti connazionali può essere la norma, soprattutto quando adescati come pesci da avvenenti ragazze che si fingono brave ragazze a passaggio come se fossero delle semplici studentesse disinteressate. Coinvolti in questo circolo vizioso, troviamo in primis le orde di maschi italiani, i quali giungono a Riga a frotte per essere poi metodicamente spennati da un'organizzazione sotterranea creata appositamente per loro, organizzazione alla quale non pare neanche vero di poter aver di che campare sfruttando una nazione talmente messa male da dover ricorrere in massa al “turismo all’estero” per sopperire alla impossibilità di vivere una vita sessualmente normale in patria. Le ragazze a Riga che campano alle spalle di questi fessi, non necessariamente sono della più cattiva specie, fra loro vi troviamo anche delle studentesse che trovano pratico guadagnare qualche soldo semplicemente strizzando l’occhio a qualche ragazzo incrociato per strada, il quale immancabilmente subito inviterà la ragazza a prendere quale cosa in qualche locale, ma a questo punto entra in gioco l’astuzia della ragazza, dato che sarà lei a indirizzarlo forzatamente in un posto con prezzi esorbitanti. Il locale chiaramente riconoscerà sottobanco una commissione alla ragazza che ha trovato il pollo da spennare. Oramai, fra le ragazze di Riga senza tante remore, si è diffuso il modo di dire “vado a pescare l’idiota”, espressione che sta ad indicare “vado a racimolare qualche quattrino sfruttando qualche turista”. Gli italiani a Riga sono divenuti, a ragion veduta, non solo lo zimbello della popolazione locale, ma anche della comunità francese e tedesca per via del fatto che la sera, dentro qualsiasi night o locale a sfondo sessuale, praticamente si parla italiano! L’italiano per fortuna, limitandosi nella maggior parte dei casi a una visita circoscritta nella capitale, nelle altre città lettoni non si è ancora sputtanato.



Ma fatti i dovuti preamboli cambiamo ora decisamente discorso, in quanto è di altro che voglio parlare.
E' innanzitutto incredibile vedere come un paese così piccolo possa riservare delle sorprese.
Prendete i jeans. Date un'occhiata ai rivetti posti sulle tasche, che impediscono loro di strapparsi: ebbene, sono dovuti a un'invenzione di Jacob W. Davis, sarto ebreo di Riga.
DJ Lethal, del gruppo rap-metal americano dei Limp Bizkit, è nato a Riga. Il suo vero nome è Leor Dimant.
La famosa Minox, la minitelecamera spia, fu sviluppata e prodotta da Walter Zapp a Riga a partire dal 1936 e il primo modello portava persino il nome della città.
Il Barone di Munchausen era di origine lettone, e prima di ritirarsi nella sua tenuta di Dunte, a nord di Riga, nel 1780, servì nell'esercito russo contro i turchi.
Il personaggio cinematografico di Crocodile Dundee, interpretato da Paul Hogan, è ispirato ad un uomo realmente esistito. Nel 1945, Arvids Blumetals scappò dalla Lettonia occupata dai sovietici per rifugiarsi in Australia, dove dieci anni dopo divenne famoso come Crocodile Harry, cacciatore di coccodrilli. La sua città natale, Dundaga, lo ha onorato erigendo una statua in pietra di due tonnellate raffigurante, ovviamente, un coccodrillo.
Mikhail Baryshnikov, il ballerino più famoso al mondo, è nato a Riga nel 1948.
Riga sostiene di essere il luogo di nascita dell'albero di Natale, sin da quando, nel 1510, la corporazione delle Teste Nere (un gruppo di mercanti scapoli), decorò con fiori un abete nella notte di Natale. Tuttavia gli estoni sostengono di decorare alberi per Natale sin dal 1411.
Riga è famosa in tutto il mondo per il suo antico Balsamo Nero, un infuso idroalcolico di erbe e spezie, prodotto con una ricetta tutt'ora segreta, considerato dai lettoni quasi al pari di una medicina che cura tutti i malanni, può essere bevuto liscio, con ghiaccio, come correttivo del caffè o come ingrediente in una miriade di cocktail.



Passo ora a parlare finalmente di musica, il vero intento di questo post. Ho visitato la capitale della Lettonia nel mese di settembre del 2010, sono rimasto molto impressionato in seguito alla visita del museo dell'occupazione di Riga, e da allora ho voluto approfondire il discorso della musica popolare e tradizionale lettone come elemento fondamentale e imprescindibile della cultura di un popolo nell'affermazione di un'identità nazionale di genti che fieramente hanno lottato per secoli per tutelare la loro lingua e la loro cultura, fino a giungere finalmente ad ottenere la piena e vera indipendenza all'inizio degli anni Novanta del secolo scorso. Inutile dire che questo mio personale percorso di ricercs mi ha portato a spaziare un pochino.
Il patrimonio di canti tradizionali è molto importante e sentito nei paesi baltici, a tal punto che gli eventi che hanno portato le tre repubbliche ad affrancarsi dalla allora morente Unione Sovietica portano il nome di Rivoluzione Cantata.
Il termine fu coniato dall' attivista ed artista estone Heinz Valk in un articolo pubblicato in un settimanale dopo le spontanee e pacifiche manifestazioni di massa, durante il Festival della Canzone Estone di Tallinn del 1988. La Via Baltica o Catena Baltica fu una "catena umana" nei Paesi Baltici, nel 1989, di persone non russe che dimostrarono pacificamente contro l'occupazione straniera sovietica. Una catena di persone che si tennero civilmente per mano per 600 km partendo da Tallinn, collegandosi con Riga ed arrivando fino a Vilnius. Questo fu un enorme atto simbolico da parte delle popolazioni baltiche non russe, di richesta di ritorno
all' indipendenza e protesta contro l'invasore sovietico. Questo divenne "simbolo" della Rivoluzione Cantata, contro l'occupazione sovietica.




Youtube rimane un valido strumento per chi volesse approfondire il patrimonio di canti e balli tradizionali lettoni. Tra un documento video e l'altro, un giorno mi sono imbattuto in una giovane artista di nome Laima Jansone (alla quale ho dedicato uno spazio fisso su questo blog), autrice di brani musicali acustici suonati al kokle, strumento tradizionale lettone, una sorta di cetra e una variante del lituano kanklės, del russo gusli, dell'estone kannel e del finlandese kantele. La nascita di questo strumento è da ascriversi al XV secolo, quando le tribù baltiche rielaborarono il liuto a partire da strumenti similari livoniani, finnici o slavi. Il kokle possiede due varianti, possiamo trovare quello della regione della Latgale e quello della regione della Kurzeme. Se volete sapere qualcosa in più su di lei, il suo sito ufficiale è disponibile nell'elenco di link di questo blog. Vi rimando anche al MySpace di questa artista, se volete ascoltare qualche pezzo: www.myspace.com/laimajansone



Ma volendo affrancarci dal suolo della musica più tradizionale, ci si può imbattere nelle atmosfere neogotiche del gruppo Ēnu kaleidoskops (il caleidoscopio delle ombre), band neofolk di Riga nata nel 2004., ai tempi in cui Mārtiņš Links, chitarrista, cantante e autore del gruppo, studiava a Kaunas, in Lituania e registrò i suoni della natura catturati in un parco e arricchiti dal suono di un flauto che portava sempre con sé. Successivamente questi suoni, aggiungendo violino, basso elettrico e batteria, furono utilizzati come base per incidere le prime canzoni. L'idea fondante del gruppo è quella, sfruttando anche il patrimonio tradizionale di storie e fiabe, di creare una moderna mitologia.
Il loro sito web ufficiale è presente nell'elenco di link di questo blog. Il sito è un po' difficile da navigare perché solo in lettone, ma comunque si può accedere ai contenuti multimediali, che sono 4 MP3 di canzoni prese dal primo album ufficiale prodotto.
Vārna, uno dei componenti del gruppo, iniziò un progetto in solitaria nel 2002, prima della nascita della band, terminato nel 2008 con l'uscita dell'album After Hundreds There Became Hundreds, dove ritroviamo tutte le atmosfere dark-folk e neo-folk tipiche del gruppo. L'album, secondo la logica dei creative commons, può essere ascoltato online e scaricato, purché il download non sia per fini commerciali e possa dare credito all'artista. Vi segnalo l'URL: http://www.jamendo.com/en/artist/Varna



Concludo con un tipo di musica meno di nicchia e meno settoriale e finisco parlando del gruppo Brainstorm (o Prata Vetra, come sono conosciuti in Lettonia), l'esportazione musicale di maggior successo dal paese. Si sono guadagnati l'attenzione internazionale piazzandosi terzi nel 2000 alla Eurovision Song Contest con la loro canzone "My Star", vincendo successivamente un MTV Music Awards come miglior gruppo baltico e andando in tournée con i REM e i Rolling Stones. Vi segnalo il sito ufficiale della band, con foto, informazioni e molto altro, tra cui un player incorporato grazie al quale è possibile ascoltare una selezione delle loro migliori canzoni: http://www.brainstorm.lv/en/

Buon ascolto.

Viaggio in Italia



Con l’Ottocento, l’esperienza del viaggio, pur conservando solidi rapporti con la realtà, diventa, nella letteratura, una esperienza di tipo interiore che assume molteplici significati, tutti riconducibili all’aspetto dominante della sensibilità romantica: l’inquietudine e l’irrequietezza interiore.
Il viaggio diventa, per i Romantici, l’itinerario dell’immaginazione verso un mondo ideale, il luogo mitico delle origine del sapere della civiltà, un luogo lontano dalla realtà borghese così superficiale e materialistica. Il viaggio nasce dal rifiuto della realtà per cercare quegli ideali di libertà, giustizia e verità nei quali crede l’intellettuale romantico.
Vi è molto spesso un legame fra la vita dei letterati che viaggiano incessantemente e i personaggi delle loro opere. Significativo è il caso di Lord Byron che viaggiò in tutto il Mediterraneo, e del personaggio Aroldo che, nel poema "Il pellegrinaggio del giovane Aroldo" (1818) intraprende un itinerario simile a quello del suo autore.

« ...and now, fair Italy! Thou are the garden of the world... »

Childe Harold's Pilgrimage (Il pellegrinaggio del giovane Aroldo) è un lungo poema narrativo. Descrive i viaggi e i pensieri di due personaggi che, disillusi da una vita di piaceri e ozî, cercano una nuova esistenza in terre straniere; complessivamente, può essere interpretato come l'espressione della malinconia e della disillusione vissuta da una generazione ormai esausta delle guerre dell'età successiva alla Rivoluzione Francese e dell'Età Napoleonica.
Come ammise lo stesso Byron, il poema trae ispirazione dalle vicende autobiografiche dello stesso autore, in particolare dai viaggi nel Mar Mediterraneo e nel Mar Egeo compiuti tra il 1809 e il 1811. Sebbene l'autore non fosse inizialmente soddisfatto della sua opera, considerandola troppo legata alle sue vicende personali, con la sua pubblicazione, da parte dell'editore John Murray, Byron ottenne un'immediata notorietà, tanto che ancora oggi lo si annovera tra i maggiori letterati inglesi. Il successo maggiore fu riscosso tra il pubblico femminile aristocratico, che amava moltissimo la figura del giovane Harold e, soprattutto, il suo onnipresente pessimismo; ben presto si notarono somiglianze tra la personalità di Byron e quella del suo personaggio.
Il poema delinea i tratti dell'eroe byroniano, ancora oggi rilevante e spesso presente in romanzi, film o commedie di tipo classico. L'eroe byroniano è solitamente posto ai margini della società, ha una personalità perennemente in conflitto tra due posizioni, una positiva di uomo gentile e una negativa di essere spietato, una di forte religiosità, una di ateismo, ed è sempre insoddisfatto e alla ricerca di nuove emozioni.
Dal punto di vista strutturale, il poema è organizzato in quattro canti di stanze spenseriane, formate cioè da otto versi pentametri giambici seguiti da un verso giambico di dodici sillabe detto alessandrino. Vi sono anche delle rime, che seguono lo schema ABABBCBCC.
Curiosità: L'atmosfera del poema ispirò il compositore romantico francese Hector Berlioz, che nel 1834 scrisse la sinfonia nota come Harold en Italie, una sinfonia in 4 parti con viola principale. Ognuno dei 4 movimenti che compongono la sinfonia è caratterizzato da un titolo che ha lo scopo di rendere più chiaro il messaggio musicale. Qui Berlioz porta ad esiti compiuti la tendenza, che la musica manifestava sempre più apertamente, di ricorrere ad un programma per fornire concretezza alle immagini che il compositore intendeva rappresentare.
Le principali innovazioni della sinfonia sono quindi l'introduzione di un programma poetico e di una melodia caratteristica.
In particolare attraverso la melodia caratteristica, propria di un personaggio, in questo caso Aroldo, Berlioz è riuscito a legittimare il suo allontanamento da schemi e formule classiche. Dove infatti la ripetizione e la variazione erano dettate da regole formali comunemente accettate, Berlioz utilizza variazioni e modulazioni come espressione dell'interiorità di Aroldo rispetto alle situazioni sempre diverse con cui si trova ad avere a che fare. La monodia caratteristica in questa sinfonia è affidata alla viola, che meglio del violino riesce a rappresentare la perenne malinconia di Aroldo.

Altrettanto significativo è il “Viaggio in Italia” di J. W. Goethe, dove si può notare come l’autore, modello di viaggiatore illuminato, sia tutt’altro che un turista distratto, attento ai soli aspetti esteriori. Benché il suo viaggio sia legato innanzi tutto a motivi di educazione estetica e artistica, lo spirito civile dell’età dei lumi è infatti molto forte in lui, e non gli consente di passare sotto silenzio aspetti meno gradevoli di città per altri versi incantevoli come Palermo, per esempio la scarsa pulizia urbana. Goethe, comunque, non si limita a prendere visione del problema di questa città, ma si sforza di individuarne le responsabilità oggettive, il che testimonia la serietà e la concretezza con cui l’intellettuale illuminista affrontava temi tradizionalmente esclusi dal ristretto e idealizzante ambito di interessi dell’arte. Inoltre erano pochi i viaggiatori, soprattutto nordeuropei, che giungendo in Italia fossero abbastanza aperti e in grado di esercitare il diritto irrinunciabile alla critica, ma anche di saper cogliere e apprezzare le differenze di mentalità e cultura, talvolta giungendo perfino a trovarne delle giustificazioni in sede storica e ufficiale. Esemplari in entrambi i sensi sono per esempio varie pagine di Goethe, nelle quali lo scrittore tedesco affianca la critica impietosa all’analisi lucida e realistica. Proprio in questo periodo, infatti, lo spirito civile rende assai diversa questa letteratura di viaggio rispetto a quella dei secoli precedenti, e ciò si deve principalmente al fatto che allo spirito esteriore del turista, attento per lo più ai paesaggi naturali e ai monumenti dell’uomo, si affianca ora un’attenzione più marcata per lo studio dei popoli nella loro dimensione collettiva, per la loro storia, i costumi e, soprattutto, le istituzioni economiche, politiche e civili. Allo stesso tempo, però, il viaggiatore del Settecento è uomo che tende a privilegiare le esperienze più nuove e curiose (a volte anche pericolose) che la vita ed il viaggio possono offrire; di conseguenza il narratore-viaggiatore, oltre che delle società con cui viene a contatto, tende a raccontare ampiamente di sé, del proprio mondo interiore, delle proprie esperienze, dalle reazioni suscitategli dall’incontro con usi e costumi tanto diversi dai propri. Uno dei tanti esempi risalenti a questo periodo è il “Grand Tour”: qui troviamo come protagonista il giovane che, con un viaggio, con la separazione dalla famiglia, dalla casa e dai luoghi abituali, abbandona il proprio mondo infantile, spensierato e irresponsabile per avventurarsi in un mondo ignoto e misterioso, dove troverà quel processo di crescita e di maturazione interiore che, una volta fatto ritorno a casa, lo renderà pronto a fare il definitivo ingresso nel mondo degli adulti. Inoltre lo spirito di avventura del giovane viaggiatore è accompagnato dall’attenzione che egli ha nei confronti degli aspetti civili del viaggio, cioè quelli che consentono di fare esperienze di usi, costumi, mentalità diverse dalla propria.

Nel romanzo Vita di un perdigiorno (Aus dem Leben eines Taugenichts), dello scrittore romantico tedesco Joseph Freiherr von Eichendorff, gli elementi principali sono la natura e la relazione che l'uomo ha con essa: per Eichendorff natura significa libertà. In questo romanzo l'Italia non viene vista attraverso gli occhi del narratore-viaggiatore, bensì attraverso gli occhi del protagonista del romanzo.
Taugenichts è un ragazzo la cui famiglia vive in un mulino; egli viene sempre chiamato in questo modo che significa Perdigiorno, anche dai suoi genitori. Una mattina di primavera si sveglia e decide di partire all'avventura per il mondo accompagnato solo dal suo violino. Taugenichts considera pigri tutti coloro che non hanno voglia di viaggiare alla scoperta del mondo e che quindi non sanno godersi l'alba e la natura.
Una volta partito, il ragazzo riesce a guadagnarsi un passaggio a Vienna in carrozza con due signore grazie alla sua musica. Lo portano nel loro castello, vicino a Vienna, dove inizia a fare il giardiniere. Ben presto egli s’innamora di una delle due donne, Aurelie. Lavora bene ed è dichiarato daziere. Ma un giorno vede la sua donna con un ufficiale su un balcone, così prende le sue cose e lascia il castello.
Il vagabondo arriva in Italia e si ferma in un piccolo villaggio, dove incontra due individui che appaiono ladri, ma si rivelano essere due pittori, Leonardo e Guido, con i quali compie una parte del suo viaggio per l'Italia. Taugenichts prosegue fino a raggiungere un castello, dove una vecchia donna e un uomo ricevono il giovane e gli offrono un pasto ricco, invitandolo a sostare lì per un po' di tempo. Un giorno riceve una lettera dalla sua amata, Aurelie, che gli chiede di tornare da lei. Il ragazzo allora scappa dal castello e finalmente raggiunge Roma, dove girando per le strade sente la voce della sua "bella donna", ma passa tutta la notte senza trovarla, e si addormenta per strada. La mattina seguente incontra un giovane che si presenta come pittore e invita il giovane a casa sua, dove gli mostra alcuni dipinti di Leonardo da Vinci e Guido Reni. Il giovane racconta dunque al pittore di aver viaggiato con loro, e scopre dal pittore che la donna amata era stata da lui dipinta e che era venuta a Roma per cercare Taugenichts.
Il pittore lo porta con sè ad una festa, ma le danze s’interrompono all’arrivo di una donna, la cameriera del castello in cui viveva, che gli porta un invito della contessa. L’incontro risulterà però essere un inganno, e il protagonista riprende il viaggio verso il castello, durante il quale incontra tre studenti polacchi che scopre conoscono Aurelie. Arrivato al castello scopre che il matrimonio si deve tenere tra Guido (in realtà la fidanzata di Leonardo) e Leonardo stesso. Alla fine ritrova la sua amata ed insieme decidono, dopo il matrimonio, di fare un viaggio in Italia.

Vi segnalo questo sito web, dove potrete leggere alcuni estratti dai romanzi di quegli autori che hanno compiuto il loro "viaggio di formazione" in Italia:
http://www.italialibri.net/arretratis/mar02.html


Concludo dicendo che il tema del viaggio in Italia è stato affrontato anche dal cinema con ambientazioni novecentesche. Vi segnalo Viaggio in Italia del 1954 di Roberto Rossellini, con Ingrid Bergman. Una coppia della middle class inglese, lui piuttosto arrogante, lei perbenista, arriva a Napoli per sistemare una questione di eredità. Alex e Katherine Joyce sono in realtà due persone che non hanno più nulla da dirsi, due estranei che reagiscono in maniera differente rispetto agli eventi e anche rispetto al paesaggio che li circonda. Quando hanno ormai deciso di interrompere il proprio legame, vengono coinvolti in una processione che si snoda lungo le strade di Pompei: la folla li allontana e li divide, ma il disperato ricongiungimento e l'abbraccio finale fra i due fa forse sperare in una riconciliazione.