Solvitur ambulanda
N.B.: Il presente blog non costituisce testata giornalistica, né ha carattere periodico, essendo aggiornato in base a come pare a me. Pertanto, non può essere considerato in alcun modo un prodotto editoriale, ai sensi della Legge n. 62 del 7-03-2001.

Powered By Blogger

mercoledì 25 aprile 2012

L'arcobaleno perfetto

Dopo una tediosa domenica di pioggia scrosciante ed incessante non poterne più di lobotomizzarsi sul divano di fronte alla TV. Uscire di casa e prendere la macchina che sta ancora piovendo ma c'è il sole, andare a caccia dell'arcobaleno perfetto e scovarlo!
Mi è capitato due domeniche fa mentre con l'auto vagavo per la Bassa tra Castel Maggiore e Pieve di Cento, passando per Argelato e Castello d'Argile.
Peccato solo che non avevo con me la macchina fotografica e peccato anche che questo capolavoro di foto qui sotto non sia mio ma l'abbia scovato sul web. Ad ogni buon conto è così bella che voglio condividerla con voi!

Festa della Zuppa 2012 - Bologna

























Orlando Biddau



Con questo post intendo concludere il ciclo, iniziato a gennaio di quest'anno, sui poeti italiani contemporanei. Siamo partiti da Milano per giungere a Roma, per poi proseguire verso Gaeta e concludere il nostro viaggio in Sardegna.

Orlando Biddau, vincitore del prestigioso premio Ozieri (l'unico premio che il poeta conserva visto che tutti di tutti gli altri premi se n’è disfatto gettandoli nell’immondizia) e riconosciuto ormai a livello nazionale, è espressione della poesia sarda contemporanea.
Le principali visioni e le risposte esistenziali che il poeta ha maturato sulla vita riguardano principalmente l’amore per la natura e gli animali.
«Il Comune di Modolo celebra con orgoglio i suoi poeti [Orlando Biddau e Peppino Deriu], che hanno contribuito a dare un’immagine ‘romantica’ del paese. Modolo si conferma un importante centro culturale e artistico in Planargia e lo dimostra il suo impegno nella diffusione del patrimonio locale, quale strumento per contribuire positivamente alla crescita di un progetto di sviluppo e condivisione comune» ha dichiarato Omar Hassan, Sindaco di Modolo.
Orlando Biddau è innanzi tutto un poeta “scomodo”, un grande poeta dalla sensibilità acutissima, le cui opere sono state fin qui trascurate, a prescindere dai riconoscimenti ufficiali attribuiti all’autore. Orlando Biddau è autore di varie raccolte, che vado ad elencare qui di seguito:
"Le verdi vigilie", dove sarebbe contenuta la quintessenza della saggezza ancestrale dei poeti biblici, un dolore pacato e intenso come soltanto Montale, Leopardi, Rimbaud e Tasso sono riusciti ad esprimere. Si tratta di una vera indagine leopardiana sulla memoria sollecitata a recuperare il senso di un’attesa del futuro che ostinatamente non si adempie in nessun presente.
Poi "L’anima degli animali", che si fa retaggio di redenzione animale, ed è la più sconcertante delle sette raccolte: vi si annida il male di vivere degli animali tutti del Creato, ma cantato con una voce accorata che ricorda Tasso e Leopardi. L’orizzonte poetico viene ritmato, dolorosamente, ed espressionisticamente, dalle immagini di animali uccisi e
torturati – scannati, accecati, bruciati con la benzina.
E poi "L’inverno inconsolabile", per lo stesso poeta celebrazione di un rito funebre di un amore caparbio e feroce, che si alimenta di sofferenza estrema.
Ancora "Una fame di vento", molteplice disincanto dall’inganno della vita, animale e umana, assieme a "Il gufo cieco", che si fa laconico messaggio di salvezza degli animali.
E poi due raccolte, "Sale d’acqua e di grano", che è un rischiararsi dell’epopea biblica e divina. Infine la settima e ultima raccolta, "Nostalgia della memoria", che vuole essere un omaggio alla Voce che lo segue dall’aprile del 1971, e che è la rivelazione della sua missione secondo l’ultima delle “Illuminatons” del poeta veggente Arthur Rimbaud.
Accanto alla poesia, un’opera in prosa, il duro romanzo autobiografico "Predestinazione" ambientato in parte in Sardegna ed in parte in una clinica psichiatrica,  imperniato sulla figura di un prete odiato ed amato, don Angelo Chessa, parroco di Modolo in Planargia. Come non pensare alla polemica del parroco con i suoi compaesani, che ritroviamo pari pari oggi nella poesia di Peppino Deriu, Sos oppressores modolesos? Un legame di amore e di odio con quei cittadini definiti serpes sine ulla affectione, che ritorna nelle poesie di Orlando, alimentando una sofferenza che è anche un modo per tentare di capire gli altri, di essere di nuovo accolto in pace dal parroco e dalla comunità.
Forse allora occorre partire dalla tormentata biografia del personaggio. Orlando Biddau nacque da genitori sardi a Fiume nel 1938: un trauma vivissimo furono per lui, dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale, il viaggio in nave (un piroscafo nero, dall’aspetto terrificante), il forzato rientro in Sardegna, la fame, l’angoscia della madre per l’assenza del padre ancora in guerra.
Modolo, il paese di origine della famiglia, ha rappresentato in quegli anni un piccolo universo, un paradiso di pace in un mondo sconvolto dalla guerra, e questo non solo per la famiglia Biddau e per gli altri sfollati. E anche per i soldati lontani, come Peppino Deriu che nel 1943 continuava a guardare a Modolo da Palau con nostalgia e rimpianto in tre bellissime cartoline galluresi. Lo stesso Biddau affermerà: "Modolo è l'ambiente ideale per la poesia. Tutto scorre lentamente, senza forti emozioni. La serenità che trasuda dal paese invita alla riflessione". La vita a Modolo conserva ancora un sapore antico, di cui la brocca per l’acqua da bere è un po’ il simbolo, come nel  Racconto d’estate di Orlando Biddau, quando la brocca di creta e l’anfora d’argilla diventano un assillo, per la paura dell’acqua sparsa, per gli immaginari sortilegi, per le atmosfere al crepuscolo.
E poi il rientro del padre dalla guerra sfortunata, la rabbia, la povertà: «giunse l’uomo spezzato dalla guerra, / faceva vino cattivo, era intrattabile: / un pomeriggio di settembre la sua donna / se lo trascinò in vigna con i bambini. / Il rigoglio dei tralci, la brezza più dolce / della carezza materna compirono il miracolo: / la ricomposta famiglia si sentì felice / quale mai sarebbe più stata». Ma la felicità è di breve durata e c’è un prezzo da pagare, tanto che la vigna dopo qualche tempo va definitivamente in malora.
Quella di Biddau fu un’adolescenza inquieta e difficile: «Mi trascino dall’età della ragione / una memoria dilaniata dalla fame / e l’insonnia scavate dentro grembo / nero della madre come incontro al supplizio».
E poi, crescendo il lavoro pesante, da manovale muratore, interrotto da poche settimane d’estate, quando correva a perdifiato «per stancarmi / e rimediare qualche sogno la notte / che mi facesse trasecolare al risveglio; quando si dava nuova lena alla / corsa col cerchio lungo tutte le strade / polverose della contrada … / sporchi e sudati ci si bagnava nudi / al ruscello, tra i fichi e i cotogni / della valle ed il declivio dei vitigni».
Quasi costretto dal parroco, si iscrive poi al Seminario diocesano (dove pure trova degli amici, come Antonio Francesco Spada) e svolge  gli studi superiori a Bosa, la città ancora oggi cara alla memoria, con il suo fiume, con l’isola alla foce del Temo, con i suoi gabbiani incantati, ma anche con la gente che festeggia un carnevale trasgressivo, che a Biddau appare violenta e rissosa, quasi allucinata. Con questa violenza nei confronti di un somarello subissato di colpi e dei cani inseguiti dai monelli.
E poi Cagliari, Genova, nel 1967 la grande occasione, la laurea in Lettere alla Sorbonne di Parigi, il riconoscimento ad Ozieri per le sue poesie in lingua sarda; infine gli studi ad Urbino, alla scuola del rettore Carlo Bo, la tesi di laurea in Lingue straniere.
Un’esperienza, questa di Urbino, interrotta nel 1970, allorché Biddau sceglie il ritorno in Sardegna e l’insegnamento ad Oristano: questa strada però si rivela impossibile:
l’insegnamento è una vita che non fa per lui. Nascono i problemi di salute, le difficoltà, si impone il ritorno nel paese della sua infanzia, Modolo, dove da allora si dedica alla letteratura ed agli studi prediletti, soprattutto ai suoi animali.
La lirica di Orlando Biddau è ricca di stimoli letterari, ma la sua originalità è rappresentata dal ruolo degli animali, visti nelle loro sofferenze, nelle loro angosce, nei loro sentimenti che li avvicinano in modo impressionante agli uomini: «Sono il gufo cieco che non trova / riparo alla bufera notturna». C’è un episodio della sua infanzia che lo condiziona, la morte dell’agnellino che gli era stato regalato da bambino, qui in questi viottoli di Modolo: «giocavo con l’agnello della mia verde infanzia / fu sgozzato per pasqua: interminabile pomeriggio / in cui digiuno girovagai per i campi / tra i miei mesti olivi e lo stormire del vento».
Da allora il demone lo assale e la notte del poeta è ormai popolata da incubi, da rimorsi, dalla disperazione, dall’angoscia, quando si affollano i pensieri di morte, che sono come il lamento del cardellino accecato: «non ho che i miei occhi da cavare, perché la vita è spietata / e l’innocente muore col cuore nel fango».
Il rigoglio della primavera aggiunge angoscia ad angoscia: «Son condannato alla mola dei giorni / e il cavallo cieco non ricorda la strada». E allora la solitudine, il tedio, lo sconforto per quello che non è stato: «Sperperai le mie primavere / in un sonno malsano, e al risveglio, / non avevo che il silenzio del gufo, / ed un verme nel cuore».
La sua disperazione è innanzi tutto una malattia, l’«inadeguatezza a vivere», che lo segna «come i tatuaggi indelebili della gente di mare o di carcere». I ricordi lo tormentano, perché nulla è lacerante come la memoria, che sanguina a toccarla.
C’è un episodio che ha segnato la sua adolescenza, una svolta, un momento tragico, la morte della madre, una donna semplice e triste, che ha lasciato in lui un’impronta profonda: «Sempre più arduo, solitario e smarrito / è il mio sentiero dacché tu non sei più / a consolarmi con le tue mani diafane / e la voce trepida e apprensiva / di chi timida visse in silenzio / un’attesa di lunghi anni d’infamia / e di condanna sognando di visitare di notte una tomba / col mio nome infangato e infranto / che ripulivi con furtive lacrime». E l’infamia è il ricovero del padre e di lui stesso in un ospedale psichiatrico, disposto dalle autorità implacabili e vendicative.  E quando ritrova la memoria si dispera: «T’ho trovato, madre, nel buio / miele d’una lunga insonne notte / d’inverno. Il focolare spento, e il vento ramingo ululava con la gola / nera e insondabile della malaventura, dal camino deserto».
C’è poi un altro personaggio, nelle poesie di Orlando Biddau, ed è Anna, sua moglie, poetessa anch’essa, «una ragazza / minuta e spaurita, permalosa / e imprevedibile, dai capelli corvini / e gli occhi fondi d’apprensione / selvaggia, quasi in essi si dibattesse / una lucertola colta al laccio»: «strana ragazza, che veleno sprizzi a ogni tua / impronta». È lei, con il suo morso di murena, con la sua unghiata di predace, la sola che ha avuto comprensione per il poeta «depresso da idee persistenti di morte», la sola con la quale il poeta può vivere, perché «è meglio la tua scossa di torpedine / insabbiata in un dolore torbido e bieco / che la felicità d’un insano mortorio». È lei, questo «scricciolo spaurito dalla furia delle intemperie», che riesce a donare la gioia nei momenti di abbandono. È lei che consente al poeta di trovare «la mia porzione di cielo e una stella fissa nel nero notturno che
m’avvolge»; è lei che rimette in moto un cuore guasto da anni.
L’uno e l’altra si sorreggono a vicenda contro «la facile pietà, i mormorii e gli sguardi / obliqui» della gente; eppure «per noi non c’è posto al banchetto, / si chiude la porta che dà nella sala». Del resto la convivenza tra i due sfortunati è difficile: «Se il comune sentiero dovesse biforcare, / l’incubo della tua assenza s’addolcirà / nel tempo come sorba o dattero o corbezzolo, / solo per il calore assicurato a una casa».
Alle volte si cerca insieme la fine del tormento: «Solo una morte precoce potrà assicurarci il riscatto e il riposo sotto un unico cippo»; e allora «la tua garrula voce di tordo s’incupirà / subitanea, il tuo riso arguto si rannuvolerà, / e moriremo affiancati in un sonno comune».
C’è nell’opera di Biddau la spiegazione del suo ripiegarsi su se stesso, del suo ritorno alle radici ed all’infanzia, del suo chiudersi nel paesaggio amato della sua valle e del suo piccolo paese, Modolo: nei suoi viaggi all’estero ha sempre cercato i paesaggi che gli ricordassero la sua terra, la sua dimensione vera di vita, quasi come un bimbo che torna nel grembo materno. Così in Spagna: «a Siviglia consumai la mia inquietudine, per ritrovare all’Alhambra / di Granada e nei vicoletti e piazzuole della Cattedrale / il filo conduttore che mi avrebbe riportato al mio paesaggio».
Solo a Modolo, però, può «aspirare l’antico odore d’infanzia, / può rinascere lieve l’illusione, / rinverdire la formula, l’idillio / che schiuda l’incantesimo».
E qui fioriscono i ricordi che lo rasserenano, come i ricordi della casa della sua infanzia: «il granaio con la frutta appesa ad essiccare e i mazzi d’aglio e di cipolle / le ghirlande di sorbe, i grappoli / d’uva, le noci e le mandorle / le grosse collane di fichi, / le pere e le melagrane / e le melerose, odorose / di tutte le primavere di mia nonna ». Le gioie che ancora prova sono quelle legate alle vendemmie, alle mietiture, ai pascoli, alla raccolta delle olive, ma sempre con una punta di disperazione.
Con le sue straordinarie poesie, Orlando Biddau riesce a condurci per mano a toccare le profondità inquietanti di un’esistenza smarrita, di un abisso di pena che è anche fatto di consapevolezza, di vigile osservazione di se stesso, di simpatia e di partecipazione per il dolore del mondo.

POESIE DI ORLANDO BIDDAU

Amore e morte univa due farfalle
Al tanfo d’una chiusa e abbandonata
Cantina di campagna, e noncuranti
Sorgevano e cadevan nubi e lune.
Tristemente ammirato le prendevo
Tra le malcerte dita ed, oh sorpresa –
Mi si schiudevano al sole immenso,
che le dissolse in intreccio di danza.
Tu il sonno verginale della ninfa
Dormi nel buio del mio sudario.
Oh, ridestarmi con te alla prima
Luce stupita d’alba sul creato!…
(Orlando Biddau, poesia contenuta nella raccolta “Le verdi vigilie”)

Il ramo che amo
trema di là d’un fiume
impetuoso e infido;
impossibile giungere
a coglierne il fiore:
vive solo per se stesso.
La canzone che amo
me la riporta il vento
a brani incomprensibili
Di stagioni cadute
con le foglie e i voli,
anche se scocca l’ora.
La donna che amo
ha veleno nelle vene,
è enigmatica e scontrosa,
mi priva del suo miele,
pur sapendo la bufera,
l’uragano che verrà.
Il mare che amo
l’ha colmato il deserto,
vive in qualche quadro antico
di memorie, o in conchiglie
levigate dalla brama,
non si cura dei trascorsi.
Il cielo che amo
prova all’agonia degli alberi
tenera indifferenza,
vive fuori del tempo
partecipe, è impassibile
alle nascite latenti.
(Orlando Biddau, "il ramo che amo…" poesia contenuta nella raccolta “L’anima degli animali”)

Calm Serenity

Link: Calm Serenity

martedì 3 aprile 2012

Elogio della bicicletta

Andrea Satta, cantante del gruppo Têtes de Bois scrive sulla sua rubrica "Dio è Morto" su L'Unità di domenica 14 aprile:

[...] Dobbiamo riscrivere e inventare. Lo può fare una generazione che si affaccia alla vita e che l'attarversa ogni giorno con rischio e pericolo, lo si deve predisporre per i bambini che crescono e ci guardano. A questo capitalismo che ci bacchetta come spreconi dopo aver formato i nostri cervelli agli sprechi (perché gli sprechi inducono consumi fittizi e i consumi fittizi proventi concreti), a questa squadra di bancari - banchieri che ci costringe a comprare casa, ma ci impicca alle sue condizioni per pagarla, che ridicolizza il posto fisso, ma attraverso le banche lo pretende per poter partecipare a qualunque cosa, dobbiamo dare uno shock. [...] a me serve quello che serve. [...] Ad esempio prendo meno la macchina. [...] Ora vado in bicicletta [...] Finché non mettono l'Imu sulla bicicletta sono salvo.
Riscattiamoci con questa rivoluzione: avere meno bisogno possibile di quelli che ci vogliono polli d'allevamento, facendo scelte per loro incontrollabili ogni volta che si può. Io mi porto Geo a pedalare in montagna o al mare e la domenica al parco col pallone a giocare e dei paraurti in tinta me ne fotto. [...]

Questo articolo mi ha fatto tornare in mente una lettura che consiglio a tutti voi. Anzi, diffondetela tra amiche e amici, parenti e non parenti: "Elogio della bicicletta" di Ivan Illich.
A un dato momento si apre un bivio di portata storica: da una parte la strada che conduce a una maggiore libertà nell’equità, dall’altra l’illusione di una maggiore velocità progressivamente paralizzante. Rispettivamente: il mondo della bicicletta e quello dell’automobile.
Il testo, nonostante i cambiamenti socioeconomici e culturali e i decenni trascorsi, è di un’attualità straordinaria, tanto più che Illich aveva visto bene verso dove la società dell’automobile ci avrebbe portato.
La sua è un’analisi scientifica, lucida, che nulla concede al sentimentalismo, e forse sta proprio qui la sua forza. I motivi che ci devono spingere a cambiare direzione sono razionali e oggettivi e hanno una loro forza necessitante.
Illich parte dal dato che la nostra è una società energivora, che di energia si ingozza fino a soffocarne. Ora, il problema è stabilire la soglia energetica oltre la quale si arriverebbe al collasso: si tratta però di un compito politico, di quella che lui definisce una “controricerca”.
La distinzione fondamentale da cui partire è quella che passa tra trasporto e transito: il primo ha a che fare con la logica del valore di scambio e del monopolio radicale da parte del capitale industriale, mentre il secondo è prodotto dal lavoro ed è essenzialmente valore d’uso. Il trasporto, che tende a marginalizzare, fino a distruggerlo, il transito diventa progressivamente per gli individui un fattore alienante: “il passeggero che consente a vivere in un mondo monopolizzato dal trasporto diventa un angosciato e forzato consumatore di distanze delle quali non può decidere né la forma né la lunghezza”. L’alienazione arriva a tal punto che “incontrarsi” significa per lui essere collegati dai veicoli (si pensi a quanto oggi ciò sia vero anche sul fronte della comunicazione: l’invio di messaggi digitali è la nuova frontiera dell’alienazione dei corpi…).
Illich si spinge fino a dare una lettura “di classe” della deformazione spaziotemporale del movimento: dimmi a che velocità vai e ti dirò chi sei! Traduciamo nel presente e otteniamo: dimmi quant’è grosso il tuo Suv…
Vi è poi la questione dell’ostruzione del traffico da parte del trasporto (saturazione fisica e ambientale, piramide di circuiti inaccessibili, espropriazione del tempo in nome della velocità) e, connessa a ciò, la determinazione della velocità-limite entro la quale il trasporto potrebbe favorire il transito: Illich non esclude che entro quel limite vi potrebbe essere un importante fattore di ausiliarietà (l’ipotesi è quella di una velocità di punta di 40 km/orari!).
Illich conclude la sua analisi individuando tre modelli di mobilità nell’odierno scenario globale: società sottoattrezzate, che cioè non garantiscono il diritto all’automobilità dei cittadini nemmeno alla velocità della bicicletta; società sovraindustrializzate dove vige il dominio dell’industria del trasporto; ma tertium datur: “c’è posto per il mondo dell’efficacia post-industriale [...] per un mondo di maturità tecnologica”, che cioè vada verso la duplice liberazione dall’opulenza e dalla carenza, che sposti l’asse dal trasporto al transito, dal monopolio alla libertà, che operi una “ristrutturazione sociale dello spazio che faccia continuamente sentire a ognuno che il centro del mondo è proprio lì dove egli sta, cammina e vive”. Ma ciò, di nuovo, non è oggetto di deduzione, quanto piuttosto di decisione politica: la rotta da prendere non è segnata sulle carte!