Solvitur ambulanda
N.B.: Il presente blog non costituisce testata giornalistica, né ha carattere periodico, essendo aggiornato in base a come pare a me. Pertanto, non può essere considerato in alcun modo un prodotto editoriale, ai sensi della Legge n. 62 del 7-03-2001.

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giovedì 31 marzo 2011

L'emergenza inventata



Dalla Locride un comunicato: i sindaci di 42 Comuni si sono messi a disposizione per accogliere una parte dei migranti sbarcati a Lampedusa, hanno già individuato i luoghi. Sono lì, aspettano solo un segno dal Viminale. Perché nessuno li ascolta?


Associazione dei 42 Comuni della Locride
Comitato direttivo.
Siamo italiani. Ci sentiamo europei ma nello stesso tempo siamo consapevoli dei
nostri legami indissolubili con tutti i popoli del Mediterraneo.
Il razzismo non fa parte della nostra civiltà che ha visto nei secoli un continuo
proficuo scambio con i popoli che si affacciano su questo nostro mare.
Quanto avviene a Lampedusa ci umilia e ci imbarazza.
Non è questa l’Europa che vogliamo, non è questa la nostra Italia.
La zona Jonica reggina è conosciuta perché, da tanto tempo, comuni come Riace e
Caulonia, sono diventati modelli di accoglienza.
Un'accoglienza che tende non solo a porgere la mano ai disperati che bussano alle
nostre porte, ma che ha come obbiettivo di fondo l’idea - certamente di non facile attuazione - di far rinascere le campagne abbandonate ed i borghi disabitati grazie agli immigrati ed ai rifugiati.
Dinanzi a quanto sta succedendo a Lampedusa e sulle coste dell’Africa non si resti indifferenti. Non ci giriamo dall’altra parte.
Il Comitato direttivo dell’associazione dei 42 comuni della zona Jonica ha deciso di dichiarare la Locride terra di accoglienza.
Non si tratta d’una semplice dichiarazione di principi.
Già abbiamo comunicato che grazie alla sensibilità di alcuni sindaci come quello di Gerace e quello di Antonimina siamo disponibili a che nella nostra zona sorga una tendopoli (che abbia come requisito prioritario la tutela della dignità umana) che accolga gli immigrati. Altri Comuni, tra cui Benestare, hanno messo a disposizione alloggi ed un fabbricato sequestrato alla 'ndrangheta. Altri sindaci hanno dato la propria disponibilità a collaborare.
Numerosi i medici ed i volontari che si sono messi a disposizione.
Molte le cooperative pronte a mettere a disposizione la professionalità maturata nel settore.
Siamo consapevoli di fare solo e soltanto il nostro dovere.
Non dimentichiamo mai chi siamo stati, quanto volte siamo stati noi a bussare a
porte degli altri e quante volte siamo stati invece un rifugio sicuro per altri
popoli.
Vogliamo solo ribadire che la Locride non è terra di mafia.
La Locride è, prima di tutto e innanzitutto, una Terra di civiltà antica, di generosa, di naturale ospitalità!

Presidente del comitato direttivo

lunedì 28 marzo 2011

Vecchio Continente o continente di vecchi?



Il destino dell’Europa sarà quello di non capire più le novità della Storia?


Siamo vecchi, il nostro è un mondo popolato e governato sempre di più da terze età, e sempre meno da gioventù. A volte questo elemento diviene talmente dominante da far invecchiare precocemente le menti di chi ancora ha trent’anni, ma forse anche venti. Le idee avvizziscono e scompaiono nel guscio di un’esistenza fin troppo facile; il desiderio di mettersi in gioco e rischiare qualche cosa in nome di un’ambizione sana si lascia inghiottire subdolamente dalla comodità di ciò che troviamo già pronto in tavola; la voglia di impresa lascia il posto alla maleducazione di pretendere un posticino riservato dentro la società che ci partorisce già incancreniti negli agi. Essere vecchi ha perciò due significati: il primo è quello biologico, il secondo è quello antropologico.

La Storia, quella con la “s” maiuscola, ha un impareggiabile senso dell’ironia. L’errore europeo è quello di cercare di catalogare ciò che accade nel mondo arabo come un qualche cosa di “già avvenuto”, la riproposizione di vicende già viste e riviste. È un errore in cui cadono gli allocchi, oppure un errore di chi non riesce a capire la lingua del proprio interlocutore. O, ancora, un errore dei nostalgici, di chi perciò si è rassegnato al fatto di aver già dato tutto ciò che poteva. Ebbene sì, perché la Storia oggi si sposta, crea i propri artifici al di fuori del luogo privilegiato in cui fino a oggi ha operato, fuori dall’Occidente. Essa parla una lingua che da sempre, volenti o nolenti, ci è estranea. Perché, mentre essa è poliglotta e comunica in tutte le lingue del mondo, privilegiandone a volte una, a volte l’altra, noi siamo vecchietti intrisi del nostro povero e scarno dialetto, vecchi che utilizzano parole obsolete per spiegare cose che con questo dialetto nulla hanno a che fare. Siamo stranieri nei confronti del movimento del mondo, extracomunitari della Storia, e le conseguenze potrebbero essere imprevedibili, molto difficili da accettare.

Ora, la domanda che più volte nel corso della storia ha dato vita a idee nuove, oggi ci suona estranea e fastidiosa: “che fare?”. Ci suona fastidiosa perché non possiamo fare proprio nulla di fronte al voltafaccia della Storia, col nostro confrontare il Muro di Berlino (quando già esistevano le idee e le energie per superare quella terribile fase, in quanto tutti eravamo giovani, forti e belli) con l’ondata araba di cui oggi siamo incompetenti spettatori. Il “che fare?” è un puro gioco di vizio per noi, giacché propriamente non abbiamo la più pallida idea di che cosa debba essere fatto, e anzi: non possiamo farci proprio nulla perché quella vicenda noi non la capiamo. E non la capiamo perché siamo vecchi satiri senza idee, abbarbicati nelle nostre roccaforti antiche di secoli delle quali non possiamo più neanche spalancare le porte visto che ne abbiamo perduto le chiavi.

La Storia, si sa, bussa alla porta dei popoli senza presentarsi, e oggi ha volto il suo sguardo lontano (ma non troppo) da noi, forse stufa della nostra incapacità di agire, di reinventarci nuovamente. Essa avrà il suo corso, che sarà sanguinario e virulento, come sempre, e che creerà condizioni di fronte alle quali saremo impreparati, da bamboccioni viziati quali siamo. Sarà il fondamentalismo a farla da padrone? Oppure si instaurerà un qualche cosa che possa appianare quel campo di battaglia e renderlo fertile di civiltà in breve tempo? Queste domande sono senza senso, visto che a porle è un vecchietto europeo che non riesce a uscire dai propri stupidi confini, un po’ per pigrizia, un po’ per impossibilità. Fatto sta che potremmo essere definitivamente usciti dall’occhio del ciclone, condannati a rimanere spettatori infermi per molto molto tempo, e questo spaventa ancora più di una guerra, ancora più di un popolo che rovescia un despota, sia esso in turbante, o in cravatta e vestito. Poco importa, perché la storia corre sempre nuda, e ancor più, mette chiunque a nudo.

E noi, al contrario di altri che oggi mostrano grande vigore e nessun timore, ci vergogniamo del nostro corpo decrepito e malandato, mostrando persino la paura di una nuova idea, il timore di fronte alla marea della gioventù, il terrore di perdere la nostra povera mediocrità.

Immigrazione: limitata l’apertura degli italiani



I risultati del sondaggio della Fondazione Leone Moressa


L’immigrazione monopolizza il dibattito sociale, alimenta la discussione politica. Gli italiani sono disposti all’accoglienza, ma gli immigrati rappresentano per l’Italia ancora un problema più che una risorsa. La questione immigrazione preoccupa più di un italiano su due (55,1 per cento), per cui viene al terzo posto dopo disoccupazione e criminalità tra i timori dei cittadini del Belpaese. Dall’altro lato emerge un’alta disponibilità a condividere con chi non è italiano la propria vita (dal vicinato alla scuola), nonché il riconoscimento dell’importante ruolo svolto in ambito economico.

Proprio in occasione della settimana contro il razzismo, conclusasi lo scorso 21 marzo con la Giornata mondiale contro le discriminazioni razziali, la Fondazione Leone Moressa ha rivolto alcune domande a 600 italiani, per sondare il loro grado di apertura verso gli immigrati presenti nel territorio, sia dal punto di vista economico che socioculturale. Il 55,1% degli intervistati ritiene molto o abbastanza preoccupante il fenomeno dell’immigrazione. In particolare, sono i cittadini più “anziani” a esprimere le maggiori riserve in merito (quasi sei su dieci). Al contrario, i giovani sembrano essere meno preoccupati (48,3%), ma temono di più la disoccupazione e dimostrano una maggiore sensibilità rispetto alle questioni ambientali.

Componente straniera nella società e nel mercato del lavoro: gli immigrati sono considerati nella maggior parte dei casi sia una risorsa sia un problema (49,7%). Una risorsa in quanto indispensabili per occupare posizioni lavorative che gli italiani difficilmente accettano (anche in periodo di crisi), perché contribuiscono a sostenere il sistema di welfare e ad accrescere la ricchezza del nostro Paese (secondo le stime di Centro studi Unioncamere e Istituto Tagliacarne dal lavoro degli stranieri deriva l’11,1% del valore aggiunto nazionale). La diversità etnica, però, diventa un problema (32,5%) per gli italiani, convinti che gli immigrati assorbano più risorse economiche di quante ne destinino alla finanza pubblica, oppure quando sono considerati una minaccia all’ordine pubblico. Secondo gli intervistati, episodi di discriminazione nei confronti degli immigrati continuano a persistere, e nel tempo sembrano essere addirittura aumentati. In particolare, al Nord e nel Centro sono più avvertiti rispetto alle aree del Meridione, ma è proprio nel Sud che tale tendenza sembra essere in aumento: «La presenza sempre più capillare degli stranieri nel sistema sociale ed economico italiano – affermano i ricercatori della Fondazione Leone Moressa – influisce sul livello di percezione dei cittadini, che valutano il fenomeno migratorio ancora come un problema, più che come una risorsa».

Tuttavia, il rapporto che gli italiani hanno con la componente straniera è duplice: se da un lato considerano gli immigrati la causa dei problemi di sicurezza, dall’altro accettano di buon occhio la convivenza lavorativa e sociale. Probabilmente, quando l’“immigrato” non è un oggetto astratto di discussione pubblica, ma un soggetto che entra a far parte della convivenza pratica e quotidiana (vicino di casa, collega di lavoro o compagno di scuola), allora le cose cambiano e così la percezione, dimostrando come gli italiani si scoprono “inclusivi” nell’esperienza quotidiana. La discussione pubblica è senz’altro utile e necessaria, ma la sfida dell’integrazione si vince sul campo, creando un sistema nel quale le diverse culture possano dialogare e confrontarsi nell’esperienza di tutti i giorni, nel rispetto delle regole, garantendo parità di trattamento e il rispetto dei diritti fondamentali, affinché la diversità sia considerata un valore più che un freno allo sviluppo (anche economico) del Paese.

Istruzione, assistenza sanitaria e lavoro sono le condizioni che secondo gli italiani dovrebbero essere garantite agli immigrati per incentivare e sostenere il processo di integrazione. Alloggio, ricongiungimento familiare, sostegno economico e libertà di culto sono ritenuti fattori secondari. Alcuni elementi consentono, tuttavia, di ipotizzare un certo grado di apertura nei confronti degli stranieri, sia sul lavoro sia sul sociale. Gli intervistati non avrebbero alcun problema a lavorare insieme a uno straniero, né tanto meno a iscrivere i propri figli in una classe dove il 20% di alunni è straniero. Si accetterebbe volentieri anche di avere un vicino di casa immigrato, comunque si è più refrattari ad affittare agli stranieri locali commerciali o appartamenti privati.

sabato 12 marzo 2011

World Theatre Day Message 2011

World Theatre Day, 27 March

Per un Teatro a servizio dell’Umanità
Jessica A. Kaahwa, Uganda


Il raduno di oggi è l’immagine concreta delle immense potenzialità del teatro nel mobilitare le comunità e creare un ponte tra le diversità.

Avete mai immaginato che il teatro potrebbe essere un potente strumento per la pace e la riconciliazione? Mentre le nazioni spendono somme di denaro colossali nelle missioni di pace nelle aree del mondo in guerra, poca attenzione è rivolta al teatro come alternativa di contatto diretto con la gente per la trasformazione e la gestione dei conflitti. Come possono gli abitanti della terra raggiungere una pace universale se gli strumenti impiegati vengono da poteri esterni e apparentemente repressivi?

Il teatro permea sottilmente lo spirito umano avvinto dalla paura e dal sospetto, modificando l’immagine del sé – e aprendo un mondo di alternative per l’individuo e dunque per la comunità. Può dare significato alle realtà quotidiane e nel contempo prevenire un futuro incerto.  Può impegnarsi nelle situazioni politiche delle persone in modi semplici e chiari. Poiché inclusivo, il teatro può mostrare un’esperienza capace di trascendere idee sbagliate avute in precedenza.

Inoltre, il teatro è un mezzo provato per sostenere e far progredire idee che noi tuteliamo collettivamente e per le quali, se violate, siamo disposti a combattere.

Per anticipare un futuro di pace dobbiamo iniziare ad usare strumenti pacifici che cerchino di capire, rispettare e riconoscere il contributo di ogni essere umano nell’impegno a realizzare la pace. Il teatro è quel linguaggio universale attraverso il quale noi possiamo promuovere messaggi di pace e riconciliazione.

Il teatro, coinvolgendo attivamente i partecipanti, può condurre a un’unica anima e decostruire le percezioni precedentemente sostenute e, in questo modo, dare all’ individuo una possibilità di rinascita affinché faccia scelte basate sulla conoscenza e la realtà riscoperta. Per far prosperare il teatro, tra le altre forme d’arte, dobbiamo fare un audace passo avanti inglobandolo nella vita quotidiana, affrontando le questioni critiche relative al conflitto e alla pace.

Il teatro esiste già in territori afflitti dalla guerra e tra le popolazioni che soffrono la povertà cronica o le malattie, con lo scopo di perseguire la trasformazione e il miglioramento sociale delle comunità. C’è un numero crescente di storie di successo in cui il teatro è stato capace di mobilitare il pubblico per costruire una coscienza e per assistere le vittime di traumi post-bellici. Piattaforme culturali come quella dell’International Theatre Institute, che hanno lo scopo di “consolidare la pace e l’amicizia tra i popoli”, già esistono.

È quindi una farsa restare tranquilli in tempi come i nostri, conoscendo il potere del teatro, e permettere che coloro che maneggiano le armi e che lanciano le bombe siano i tutori della pace nel nostro mondo. Come possono strumenti di alienazione diventare allo stesso tempo strumenti di pace e riconciliazione?

In questa Giornata Mondiale del Teatro io mi rivolgo a voi per riflettere su questa prospettiva e per considerare il teatro innanzi tutto come strumento universale di dialogo, trasformazione e miglioramento sociale. Mentre le Nazioni Unite spendono quantità colossali di denaro nelle missioni di pace intorno al mondo, attraverso l’uso di armi, il teatro è una alternativa spontanea, umana, meno costosa e in prospettiva molto più potente.

Anche se non è la sola risposta per portare la pace, il teatro sicuramente dovrebbe essere  incluso tra gli strumenti operativi nelle missioni di pace.


(traduzione italiana a cura del  Centro Italiano ITI )



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