Solvitur ambulanda
N.B.: Il presente blog non costituisce testata giornalistica, né ha carattere periodico, essendo aggiornato in base a come pare a me. Pertanto, non può essere considerato in alcun modo un prodotto editoriale, ai sensi della Legge n. 62 del 7-03-2001.

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domenica 25 settembre 2011

Niente da dichiarare?




Il Belgio. Uno stato recente, costituitosi nel 1830 in seguito ad una rivoluzione che lo portò ad affrancarsi dai Paesi Bassi, riconosciuto poi ufficialmente nove anni dopo. Uno Stato suddiviso in due regimi linguistici. Fin dall'inizio del XX secolo la storia del Belgio è stata sempre più dominata dalla crescente autonomia delle sue due comunità principali, fiamminga e vallone. A conferma di ciò, a partire all'incirca dal 1970, non esistono più partiti nazionali in Belgio, ma solo partiti fiamminghi o valloni. I reiterati tentativi di stabilire partiti nazionali, producono risultati, in termini di voti, inferiori all'1% dell'elettorato. Per questo, il panorama politico mostra un sistema duale che riflette le due comunità dominanti. Dopo le elezioni politiche del giugno 2007 queste divisioni politiche si sono ulteriormente accentuate, tanto da trascinare il paese in una crisi istituzionale particolarmente grave.  La crisi politica ha trovato il suo culmine dopo le elezioni del 2010: da allora il Belgio non ha ancora un governo ufficiale, anche se c'è da dire che il senso civico, civile e morale dei belgi, anche se non aiuta a superare questa impasse, riesce comunque a far mantenere un certo ordine in una situazione, che altrove avrebbe prodotto l'anarchia, con tutti gli strascichi che ne conseguirebbero. In Belgio, l'argomento etnico è profondamente legato a quello linguistico e si registrano consistenti tensioni di natura politico-economica tra i due gruppi etnici. La Vallonia, regione mineraria di precoce industrializzazione e principale motore dell'economia belga fino agli anni settanta, ha sofferto profondamente della crisi del settore siderurgico e si è affacciata alle soglie del XXI secolo con esigenze di riconversione industriale, con un livello di sviluppo inferiore a quello dei Paesi limitrofi e con un elevato tasso di disoccupazione. Senza dubbio le Fiandre costituiscono attualmente l'area forte del Paese dal punto di vista economico, ed è proprio questo il motivo per cui il Vlaams Belang, partito fiammingo di estrema destra razzista e xenofobo avoca a sé la tutela e la rappresentanza della comunità fiamminga e rivendica l'indipendenza delle Fiandre, oltre ad una stretta regolamentazione dell'immigrazione.




Ho visto proprio ieri sera Niente da dichiarare?, film di Dany Boon, che è anche uno dei due protagonisti, un film che vuole scherzare e farci riflettere sui pregiudizi imperanti e i regionalismi che non ci permettono di vedere lucidamente le cose, e cioè che in fondo siamo tutti uguali. I belgi vengono chiamati dai francesi "mangiamolluschi" e i francesi vengono chiamati dai belgi "mangialumache", ma alla fine, i due doganieri belga e francese, dovendo lavorare a stretto contatto nel primo distaccamento mobile della dogana franco-belga pattugliando le strade di campagna di frontiera in seguito alla soppressione del loro posto di dogana fisso, imparano a capire che le diversità sono sempre relative e che se ci si adatta e ci si conosce meglio, si può rimanere molto sorpresi dalle peculiarità degli altri. E chissa che questo film non farà riflettere anche voi sul fatto che il genere umano è unico, il pianeta è di tutti e che l'umanità non è divisa in razze, bensì in due categorie: gli onesti e i malfattori.

domenica 18 settembre 2011

Odio gli indifferenti. Credo che "vivere vuol dire essere partigiani". Chi
vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è
abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli
indifferenti.
L'indifferenza è il peso morto della storia.
L'indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma
opera. È la fatalità; e ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i
programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che si
ribella all'intelligenza e la strozza. Ciò che succede non è tanto dovuto
all'iniziativa dei pochi che operano, quanto all'indifferenza, all'assenteismo
dei molti.
Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga,
quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare,
lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire
al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare.
La fatalità che sembra dominare la storia non è altro appunto che
apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo.
Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma
nessuno o pochi si domandano: "se avessi anch'io fatto il mio dovere, se
avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe
successo ciò che è successo?" Ma nessuno o pochi si fanno una colpa
della loro indifferenza, del loro scetticismo, del non aver dato il loro braccio
e la loro attività a quei gruppi di cittadini che, appunto per evitare quel tal
male, combattevano, di procurare quel tal bene si proponevano.
Odio gli indifferenti anche perché mi dà noia il loro piagnisteo di eterni
innocenti.
Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.


(Antonio Gramsci)

Ce l'ho sinceramente con chi vuole mettere in discussione lo strumento dello sciopero. Due settimane fa c'è stato lo sciopero della CGIL e ho sentito dire da qualcuno che manifestare non serve a nulla. Quindi, secondo questo punto di vista, si dovrebbe rinunciare a quello che forse è l'unico mezzo rimasto per dimostrare la propria rabbia, indignazione, frustrazione, per poter gridare il proprio "io non ci sto" e volere che le cose cambino, anzi, essere parte integrante di quel processo di cambiamento tanto sperato, l'unico mezzo rimasto per tentare di difendere i diritti, ogni giorno calpestati, dei lavoratori.
Per me ha ancora un senso dirsi partigiani al giorno d'oggi, nella triste Italia sprofondata nel berlusconismo, ed è per questo che ho voluto riprendere le parole di Gramsci, scritte nel 1917 ma sempre e comunque attualissime in riferimento alla situazione politica e sociale che stiamo vivendo.
Non ci sto e mi chiamo fuori da un popolo divenuto succubo, che non trova la forza di ribellarsi e che all'ultimo ha incaricato le donne a manifestare, all'incirca un milione, per dire che era ora di farla finita con questo regime carnevalesco e sessista-machista, e che sarebbe ora di tornare ad occuparci delle nostre quotidiane, più importanti ed impellenti preoccupazioni.
E ce l'ho con voi che, prima avete contribuito a far salire al potere quel personaggio che ci ritroviamo, poi adesso, che sentite che il vento inizia a tirare da un'altra parte, vi scagliate a parole contro di lui e lo criticate, ma non muovereste mai un dito per contribuire a cambiare le cose, gente senza idee, ideali, coscienza politica e una visione politica della realtà che sia degna di essere etichettata come "democratica" e all'insegna della pacifica convivenza civile multiculturale. Reazionari e xenofobi, non meritate nemmeno di dirvi cristiani, voi che vi riterreste tali - e ve lo dice uno che si dichiara agnostico.

domenica 11 settembre 2011






Mi ritengo brutalmente offeso quando sento dire da persone senza nemmeno una punta di adeguata preparazione culturale e letteraria che Kafka era una personalità disturbata. Si liquida in fretta e furia e si disconosce l'opera di questo autore. E' pur vero che "La metamorfosi" è un racconto sconvolgente, però, data la sua assoluta originalità per l'epoca, è da considerarsi un assoluto capolavoro. E il mio intento in questa sede è quello di tentare di spiegare il racconto de "La metamorfosi" e Kafka, con l'auspicio che magari, alla fine, questo autore e la sua opera, visti con un'ottica diversa e finalmente cambiata, possano essere apprezzati un pochino di più.

Quando Gregor Samsa si svegliò una mattina da sogni inquieti, si trovò trasformato nel suo letto in un immenso insetto. Era disteso sul dorso duro come una corazza e, se sollevava un poco il capo scorgeva il proprio ventre convesso, bruno, diviso da indurimenti arcuati, sulla cui sommità la coperta, sul punto di scivolare del tutto, si tratteneva ancora a stento. Le numerose zampe, miserevolmente sottili in confronto alle dimensioni del corpo, gli tremolavano incerte dinanzi agli occhi. "Cosa mi è successo?" pensò. Non era un sogno. La sua stanza, una vera stanza da essere umano, soltanto un po' più piccola, stava tranquilla fra le quattro familiari pareti. Sopra il tavolo - sul quale, tolto dalla valigetta, era sparso un campionario di tessuti (Samsa era commesso viaggiatore) - era appeso un ritratto che di recente egli aveva tagliato da una rivista illustrata e messo in una graziosa cornice dorata. Raffigurava una signora che, in cappello e stola di pelliccia, sedeva eretta e tendeva all'osservatore un pesante manicotto di pelliccia in cui era scomparso l'intero avambraccio [...]

Tutto accade così, per caso, senza una logica precisa, senza una razionalità. Semplicemente, succede. Un giorno Gregor si sveglia e scopre di essere diventato un enorme insetto. L’irreale irrompe nella realtà e la stanza in cui si rifugia l’insetto diventa una metafora dell’esistenza.
Franz Kafka fa emergere lucidamente la dimensione dell’ assurdo, del non senso, del non riuscire a cogliere le direttrici attraverso cui la realtà, spesso inspiegabile e imprevedibile, si sviluppa.
L’idea che una mattina ci si possa svegliare e ritrovarsi insetto è di per sé geniale. La metamorfosi, però, è anche altro. Questo breve racconto presenta spunti molto interessanti.
Anzitutto c’è un personaggio, Gregor Samsa, che vive una trasformazione innaturale, drammatica, da incubo. E continua, per i diversi mesi che lo vedranno sopravvivere in quelle condizioni, a pensare a quotidianità come il lavoro, il denaro, la casa, la famiglia da mantenere. Quasi fosse un prevedibile incidente di percorso quello che gli è capitato. Gregor, da insetto, conserva inalterata la sua mente umana, la logica, i sentimenti e le sue angosce imprigionate nella nuova, orrenda fisicità.
Particolarmente efficace è anche la descrizione della famiglia al centro della vicenda narrata. Gli obblighi del protagonista verso genitori e sorella rendono l’atmosfera asfissiante già prima della metamorfosi. Gregor Samsa vive una condizione paralizzante quando ancora dispone del pieno possesso delle sue caratteristiche umane.
I familiari, dinanzi a quel fenomeno terribile e impensabile, si chiudono atterriti in sé stessi e alla fine si identificheranno mentalmente con l'insetto. Pertanto abbiamo il protagonista che, divenuto insetto, conserva la sua mente umana, mentre la famiglia, pur consevando la sua fisicità, smarrisce la mente e regredisce allo stadio dell'animalità.

In realtà, una logica c’è, è una delle chiavi di lettura di questo romanzo ed è la storia che si cela dietro questo racconto, che altro non sarebbe se non una trasposizione figurativa della vita dello stesso autore. Un primo indizio di tutto ciò sta proprio nel nome del protagonista: Gregor Samsa, un nome che non è altro che il crittogramma di Kafka (dove la S e la M stanno al posto della K e della F). Ma la trasposizione si vede anche leggendo la vita dell’autore. Una vita segnata dalla tubercolosi. Un’esistenza amara che spinge lo stesso autore a rifugiarsi in un’armatura invisibile fatta di indifferenza e distacco.

La metamorfosi in questo caso avviene ravvicinando il protagonista allo stadio animalesco da cui il nostro genere proviene, ma, secondo la seconda chiave di lettura di questo racconto, può essere trasposta nella regressione, anche culturale, che coinvolge la società e la maggior parte dei suoi membri. Una società regredisce quando si schiaccia sul presente, quando vive solo l'attimo, quando si annulla l'amore per il prossimo in luogo dell'amore egolatrico per sé, che diventa preponderante, riducendo ad egoismo ogni atto della vita. Forse Kafka presentiva che era in atto l'emergere del fenomeno della dimensione animalesca su base collettiva. L'io della società si rattrappisce. Con l'emergere, su base collettiva, della dimensione animalesca, si può affermare che fosse in atto un mutamento antropologico, quindi una metamorfosi, in un'epoca da poco uscita dal diciannovesimo secolo, appena entrata nel primo conflitto mondiale, che da lì a poco avrebbe esperito il dilagare dei fascismi in Europa e l'avvento di una seconda guerra mondiale.

Il regista spagnolo Carlos Atanes ne ha fatto un cortometraggio dal titolo The metamorphosis of Franz Kafka. Da notare, in quest’ultimo titolo, l’uso di “of” e non di “by”, a significare proprio il doppio senso biografico e letterario.
Questo cortometraggio è un libero adattamento del racconto, infatti il regista ha preso la decisione di non limitarsi troppo al testo, sfruttando, ad esempio, una magnifica location rappresentata da una biblioteca con più di 60.000 volumi e infarcendo la storia di riferimenti e allusioni alla vita privata e familiare dell'autore, specialmente riguardo ad Hermann Kafka, il padre, con il quale Franz ebbe sempre un rapporto molto complicato. Quindi c'è un identificarsi tra la famiglia della fiction (i Samsa) e la famiglia della realtà (i Kafka), con sullo sfondo i primissimi eventi che fanno presagire l'avvento del nazionalsocialismo in Europa Centrale, regime che Kafka non fece in tempo a conoscere, ma che anni dopo distrusse la sua famiglia.




lunedì 5 settembre 2011

Mestieri di cui ci sarebbe ancora bisogno



Una volta facevano il mestiere di spazzacamini molti piccoli, età media 6-7 anni. Lo strumento simbolo di questo mestiere era la raspa.
Oggi non è più così, ma il mestiere di spazzacamino non è affatto dimenticato. Al giorno d'oggi esiste un'associazione di fumisti e spazzacamini, che organizza anche corsi professionali per imparare il mestiere.
Chi sono oggi gli spazzacamini, e che mestiere svolgono? Sono tecnici qualificati per la manutenzione e il controllo degli impianti fumari. Spesso ci dimentichiamo che i nostri impianti di riscaldamento, dai camini alle caldaie, condominiali o autonome, hanno una canna fumaria, elemento importante per riscaldarsi in sicurezza.
Ci sono poi paesi all'avanguardia, tra cui la Germania, che è stato il primo paese in Europa ad emanare una legge che regolamentasse gli impianti fumari.
Vent'anni fa questa professione era, con la sua caduta in disuso, ormai sconosciuta e, ancora al giorno d'oggi, con la sua rinascita e riqualifica, è ancora relativamente poco conosciuta, una professione però oggi altamente specializzata, che deve lavorare con normative tecniche sviluppate anche dalla categoria professionale stessa, a tutela non solo della qualità del lavoro svolto, ma anche della qualità delle canne fumarie.
I rappresentanti di categoria affermano che, ancora oggi, dopo quello del circense, il mestiere del moderno spazzacamino è tra i più pericolosi. Gli spazzacamini hanno polizze assicurative piuttosto onerose. Gli incidenti sono causati dal fatto che, la maggior parte dei tetti in Italia non ha ancora un'adeguata messa in sicurezza, anche se questo aspetto sarebbe obbligatorio per legge. Pertanto, le norme e le leggi ci sono, ma non vengono rispettate. Si calcola che in media ogni anno ci sono 10.000 interventi dei vigili del fuoco sui tetti e le canne fumarie a causa della fuliggine che prende fuoco per via della mancanza di un'adeguata pulizia delle canne fumarie stesse e questo dà origine ad un costo sociale, se ci si pensa, piuttosto elevato.

Nella crisi dell'odierno mercato del lavoro mancano a livello nazionale le figure professionali di panificatori. Sembra che i giovani non vogliano fare questo mestiere, anche se il presidente della Assopanificatori ricorda che queste figure professionali arrivano a guadagnare anche 2-3 mila euro mese, tra paga base, straordinari, lavoro notturno, festività e premi di produzione.
Le difficoltà a reperire manodopera per i panifici sono comuni alla maggior parte del territorio nazionale.
Secondo stime delle Associazioni di categoria mancano, nei forni italiani, dai 3.000 ai 4.000 addetti; questo nonostante la crisi del settore che ha visto il diminuire dei consumi pro-capite e l’avanzare dei prodotti industriali. In un momento di forte crisi occupazionale, dunque, le aziende paradossalmente hanno difficoltà a reperire figure professionali. Mancano soprattutto i giovani italiani che, in ragione del particolare regime di lavorazione, che si svolge di notte, preferiscono altre occupazioni, anche meno redditizie. Certo i tempi di impiego vanno a scapito della vita sociale notturna, privilegiata dai giovani; anche se occorre dire che oggi le nuove tecnologie consentano ritmi di lavoro più contenuti per cui gli orari si sono di molto modificati e concentrati, consentendo cicli di produzione che possono essere anche avviati in modo più articolato.
La paga base per un fornaio è di circa 1.500 euro lordi al mese per 14 mensilità, cui vanno aggiunti una serie di elementi flessibili, in ragione dei territori, dei periodi dell’anno e delle aziende come: straordinari, lavoro notturno, festività, premi di produzione, elementi che possono portare il reddito anche a superare i 2.000 euro mese con punte, in alcuni casi eccezionali e per le figure più professionalizzate, che si avvicinano ai 3.000, sempre lordi.
Lo scalpore suscitato, soprattutto in riferimento al reddito, è testimonianza di un pregiudizio culturale anacronistico, tutto italiano, che colpisce tutti i lavori manuali nel nostro paese: spesso, come nel caso dei fornai, di antiche tradizioni e saperi e con grandi potenzialità imprenditoriali.
Un mestiere che non si improvvisa e richiede grande professionalità e conoscenze complesse che si apprendono negli appositi corsi di formazione organizzati dalle Associazioni di categoria.
Rielaborare una nuova e moderna cultura del lavoro, vuol dire tornare a valorizzare l’impresa come luogo formativo per eccellenza, eliminare la dicotomia fra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Spezzare la nefasta equazione per cui il lavoro manuale è destinato a chi non studia e, nel contempo, chi studia non può fare un lavoro manuale.
Finché si considereranno marginali i “cosiddetti” lavori manuali o artigianali, non potremo mai avere un mercato del lavoro veramente libero e ricco di opportunità per tutti.

Il problema è che i giovani non conoscono i mestieri tradizionali. Mancano ebanisti, falegnami, maestri orologiai, tagliatori di pietre e incastonatori. C'è bisogno persino di giardinieri.
Bisognerebbe fare opera di orientamento già nelle scuole medie e affascinare i ragazzi.
Molte di queste figure stanno scomparendo. E la loro estinzione mette a rischio il nostro Made in Italy, che non è fatto solo da stilisti di moda.
Tanti giovani non si avvicinano a questi mestieri perché non li conoscono. E perché tante famiglie ostacolano certe scelte. Ma deve essere chiaro che sono necessari impegno, fatica e costanza, oltre a un po' di talento.
L'elenco dei mestieri tradizionali che stanno oggi fortemente cadendo in disuso, ma di cui in Italia ci sarebbe ancora bisogno, è lungo.

Il fabbro.
Un mestiere tipico della civiltà contadina, sia per la produzione di attrezzi da campagna che per ferrare i quadrupedi.
Per quest’ultima attività ci voleva bravura, serietà e oculatezza, altrimenti si metteva a repentaglio l’incolumità della bestia, l’interesse del proprietario e, soprattutto, il proprio buon nome.

L'apicoltore.
Diventare apicoltore non é una decisione ma é una passione che spinge verso il mistero della natura e della sua capacità di perpetrarsi ed evolversi.
Molti professionisti sono prima divenuti apicoltori amatoriali. Il loro passaggio alla professione, come scelta di vita, presenta tanti rischi e incertezze. Per essere "iniziati" all'apicoltura servono, oltre alla passione, le api, l'attrezzatura, un luogo idoneo.
Per localizzare una zona adatta al posizionamento del nostro apiario, dobbiamo tener conto della biologia degli insetti. Necessitano di fioriture nell'arco delle stagioni entro 3 km. di distanza (non qualsiasi fioritura, ma specie produttrici di polline e nettare abbondante), una sorgente d'acqua, un luogo soleggiato (in estate magari riparato da qualche pianta a foglia cedue), non troppo ventilato.

Il falegname.
I falegnami del passato lavoravano tutto a mano. A mano segavano le assi, a mano inchiodavano.
Quando si trattava di lavori pesanti, come portoni, armadi, eccetera, bisognava mandare giù grosse viti, che dovevano penetrare profondamente nel legno, con il cacciavite a mano.
E finché si trattava di legno d'abete poteva anche passare, ma quando si trattava di castagno, noce o altro legno bisognava mettercela tutta, specie se erano viti grosse e lunghe. Di sudore ne colava parecchio.

Il ceramista.
Un tempo il mestiere doveva rispondere prioritariamente alle esigenze della vita quotidiana.
Tali esigenze erano quelle di conservare, cuocere, trasportare ogni tipo di bevande, liquidi e alimenti. Ogni oggetto aveva dunque una sua destinazione d’uso ben definita.
Il ceramista per realizzare i suoi oggetti impastava la terra, la sgrassava con segatura e con combustibili minerali e modellava la pasta con le mani e il tornio, oppure usando degli stampi, o ancora per fusione.
Il tornio del ceramista è solitamente verticale ed è costituito da un’asse che collega un piatto circolare superiore con un disco inferiore in legno che viene fatto ruotare con i piedi, dandogli la velocità necessaria per far “montare” il pezzo.

Nel 2010 nel nostro Paese si contavano 2,2 milioni di disoccupati e almeno 7-8 milioni di precari. Non c'è, si può dire, famiglia con prole adulta, di qualunque ceto, dalle Alpi alla Sicilia, in cui non si ponga il problema lavoro, soprattutto per i giovani. E in un periodo come questo, dove la disoccupazione aumenta, ci sono molte professioni che ancora tirerebbero e che permetterebbero di trovare facilmente uno sbocco lavorativo e stipendi anche molto elevati.
La nostra società ha sempre meno bisogno di lavoro per produrre merci e servizi, e tuttavia, mentre pone nel reddito la base della cittadinanza e della stessa vita delle persone, condanna chi ne è privo all'angoscia quotidiana. E questi condannati sono ormai tanti, crescono di giorno in giorno. Occorre cominciare a separare la percezione del reddito dalle attività produttive. Non possiamo più attendere lo sviluppo che creerà finalmente la piena occupazione. Questa è una nostalgia utopica dei vecchi sviluppisti. Oggi saremmo in una diversa condizione se l'opposizione organizzata del movimento operaio avesse potuto utilizzare l'enorme incremento della produttività del lavoro dell'ultimo mezzo secolo per un dimezzamento della giornata lavorativa. Meno lavoro per ognuno, più occupazione per tutti. Ma così non è stato e i rapporti di forza attuali, la cultura dominante, non rendono praticabile il progetto.

domenica 4 settembre 2011

Lo spirito estone





“Un centinaio di anni fa alcuni aristocratici baltici, grandi viaggiatori, discussero su quale città, vista dal mare, fosse la più bella. C’erano tre candidate: Napoli, Rio de Janeiro e Tallinn. Anche se nell’ultimo decennio sono stati costruiti a Tallinn diversi palazzi di notevole altezza, il panorama della città, con le sue numerose torri e guglie in stile gotico e barocco, è intatto. La vista dal mare è forse l’opera d’arte più preziosa che la nostra città può offrire. Solamente il dipinto “La danza della morte” nella chiesa di San Nicola potrebbe farle concorrenza”
Juri Kuuskemaa, storico dell'arte



L’ Estonia è situata sulle rive orientali del Mar Baltico. Come i finlandesi, gli Estoni discendono dai popoli ugro-finnici. Un tempo i popoli ugro-finnici occupavano tutti i territori boscosi dell’Europa settentrionale e orientale, poi le grandi ondate migratorie dei Balti e degli Slavi assimilarono le popolazioni locali. Questo processo di assimilazione è durato praticamente fino ai giorni nostri, in quanto ancora nel corso di questo secolo abbiamo visto sparire sotto ai nostri occhi, popoli ugro-finnici come gli Ingri, i Voti e i Livi, questi ultimi assorbiti dai Lettoni.
Gli Estoni sono dunque ciò che resta di uno dei popoli sedentari più antichi del nostro continente, e sono fieri di essere aborigeni della propria terra, che hanno abitato per quasi diecimila anni. Avendo visto cedere all’assimilazione tanti altri popoli della loro stessa famiglia, gli Estoni, consci della propria identità, considerano un dovere mantenere vive una lingua e una cultura tanto antiche.
In cosa consiste, in particolare, la specificità di questo popolo, quali sono i tratti che lo distinguono dalle altre genti europee?
E’ evidente che nessuna etnia può considerarsi “pura”, e che non vi sono culture isolate; ad ogni genesi etnica partecipano molte differenti correnti, e nel suo farsi storico un popolo assorbe per secoli elementi appartenenti ad altre tradizioni. Così è avvenuto anche per gli Estoni che, per lo meno durante gli ultimi centocinquanta anni, hanno coscientemente formato e sviluppato propri rapporti culturali col resto dell’Europa.
Ciononostante, pur nei continui scambi con i vicini, gli Estoni hanno sempre attribuito una funzione essenziale alla lotta per la sopravvivenza in quanto popolo al mantenimento e allo sviluppo della lingua. Ecco perché sono particolarmente sensibili ai pericoli che minacciano la lingua, come la russificazione, cui si sono opposti negli ultimi decenni all’interno dell’impero sovietico. Per l’anima estone la principale virtù della nuova indipendenza è quella di avere allontanato questo pericolo, di avere prodotto nuove e migliori condizioni per proteggere la lingua e la cultura nazionali.
Gli Estoni sono fieri, inoltre, di possedere una delle raccolte di poesia popolare più imponenti d’Europa. Nel secolo scorso, quando la poesia popolare era ancora viva, il pastore Jakob Hurt organizzò in Estonia un’opera di raccolta di questi testi che vide la partecipazione non solo degli intellettuali, ma anche di moltissimi contadini e semplici cittadini.
La poesia popolare rivela che gli Estoni non sono mai stati un popolo guerriero. Le epopee storiche sono meno sviluppate nella cultura dei gruppi sedentari e coltivatori; non mancano invece le fantasie amorose, i canti sul lavoro o sui modi di vita.
L'epopea nazionale, il poema Kelevipoeg, scritto verso la metà del secolo scorso da Kreutzwald, presenta parti eroiche piuttosto artificiose, mentre riflette perfettamente la vita spirituale di un popolo contadino.
Tutto ciò viene confermato dalla storia recente; il processo che ha condotto all’indipendenza, alla liberazione dall’impero sovietico cui l’Estonia era stata annessa con la forza, si è svolto in modo del tutto pacifico ed è confluito in un movimento chiamato “la rivoluzione  cantata”. Una delle manifestazioni più stimolanti dello spirito nazionale, infatti, sono sempre state le Feste del canto, alle quali gli Estoni partecipano in modo spettacolare.
Un’altra differenza importante tra gli Estoni e molti altri popoli europei è che essi non hanno mai diviso il mondo in bianco e nero, la loro logica tradizionale non riposa su opposizioni. Gli antiche dèi estoni non erano particolarmente minacciosi, si poteva sempre arrivare ad un accordo con loro e talvolta anche prenderli in giro. Gli spiriti cattivi non erano affatto onnipotenti, piuttosto stupidi, ragion per cui una persona intelligente riusciva sempre a cavarsela e a riparare alle loro malefatte.
Il censimento del 1896 ci informa che il 96% degli estoni sapeva all'epoca leggere e scrivere, con una percentuale addirittura superiore per le donne che per gli uomini: in nessun'altra parte dell’Europa occidentale o dell’ex impero russo si ritrovano cifre così alte. Dall’evoluzione storica risulta che l’Estonia appartiene innanzitutto alla sfera culturale scandinava, nonostante dal Duecento i suoi governanti siano stati dapprima agli ordini religiosi - la cui lingua era il latino – e poi la classe dirigente locale che parlava tedesco. La lotta per la lingua e la cultura indigena cominciò verso la metà del secolo scorso, e il risultato del “risveglio nazionale” fu l’affermazione dell’identità estone, divenuta dominante
Oggi, in un’Estonia nuovamente indipendente, i venti del vario mondo non trovano più ostacoli; anzi, la funzione degli intellettuali sarà quella di vigilare attentamente per impedire che l’Estonia si lasci trascinare nell’orbita della malattia dilagante in Europa: l’americanizzazione. Il pericolo esiste ed è un rischio per questa popolazione completamente nuovo.
In ogni caso c’è un rimedio: essere aperti a tutto il mondo, imparare da tutti e fondere tutti gli apporti in una cultura specifica, organicamente adatta ai bisogni umani e piena di energie vitali.



Tallinn, capitale della Repubblica di Estonia, è una città dai tratti spiccatamente medioevali, sulla costa orientale del Mar Baltico. Nonostante un passato turbolento, caratterizzato da dominazioni straniere e guerre,  incendi e rivolte, la città è riuscita a conservare un centro storico intatto. Tallinn non è solo la capitale del Paese, ma anche importante nodo di comunicazioni e sede portuale.
Tallinn, è anche la città in cui risiede quasi metà della popolazione dell’intero Paese. L’ultimo censimento (marzo 2008) registrava poco più di 403.000 abitanti all’anagrafe cittadino. Tallinn fa registrare uno strano primato. Tra le capitali europee è quella con la più alta percentuale di abitanti non appartenenti all’Unione Europea: quasi il 30%! Questo fenomeno demografico è dovuto al fatto che dopo il raggiungimento dell’indipendenza, molti russi sono rimasti senza però ottenere la cittadinanza estone.
Tallinn è anche una degna capitale dal punto di vista culturale. Molti i teatri, i musei e le sale da concerto.
Ovunque si percepisce un’aria di profondo rinnovamento, che si manifesta in una effervescente  vitalità edilizia. Il volto di Tallinn negli ultimi dieci anni è cambiato a ritmi impressionanti.
La Città Vecchia di Tallinn ricopre solo una piccola parte della capitale estone, ma racchiude nelle sue viuzze le maggiori attrazioni di natura sia turistica che culturale. Entrata a far parte nel 1997 del Patrimonio Mondiale dell’Unesco, è circondata da un’antica cinta muraria e si estende ai piedi della Collina di Toompea, sede, tra l’altro, del Parlamento Estone.
Il centro geografico della Città Vecchia corrisponde alla Piazza del Municipio (Raekoja Platz). Qui si trova anche la Farmacia del Municipio, una delle più antiche d’Europa risalente al lontano 1422.
Scendendo lungo la Vene (l’antica via dei mercanti russi) troviamo una deliziosa viuzza conosciuta come il Passaggio di Caterina (Katariina Kaik), uno dei luoghi più suggestivi e romantici di tutta la Città Vecchia. Uno scorcio di medioevo assolutamente da vedere.
La Pikk (Via lunga) era la porta al mare dalla Città Vecchia. E’ fiancheggiata dalle abitazioni in stile medioevale della borghesia mercantile di origine tedesca. Alcune risalgono al XV secolo.
La Porta di Viru e la torre denominata Margherita la Grassa segnano lo sbocco verso il mare della Città Vecchia. La costruzione della torre risale al 1520 ed è la più imponente di tutta la cinta muraria. Le pareti raggiungono in alcuni punti lo spessore di sei metri. Venne restaurata nel 1978 ed oggi ospita Il Museo Marittimo Estone.
La collina di Toompea sorge su un altipiano calcareo sul lato sud orientale della Città Vecchia. A Toompea si trova forse la più bella torre difensiva di Tallinn chiamata Kiek in de Kok (dal basso tedesco “sbirciare in cucina”). Costruita nel 1475, alta poco meno di 40 metri, era un validissimo e strategico punto di osservazione per i soldati. Oggi è sede di un museo che ripercorre alcune delle tappe più significative della storia di Tallinn.
Toompea offre ai turisti diversi punti panoramici con vista sulla Città Vecchia e oltre, fino al porto. Ideale per fare fotografie e per riprese.
Ad est della Città Vecchia, la maggior attrazione turistica è sicuramente il Parco di Kadriorg (la “valle di Caterina”) con all’interno il bellissimo Palazzo di Kadriorg. L’area verde di oltre un chilometro, con alberi di castagno e querce è frequentata da abitanti e turisti prevalentemente in estate, ma è molto suggestiva anche in autunno sotto il profilo cromatico. Il Palazzo di Kadriorg in stile barocco venne costruito nel  1718 per volere di Pietro il Grande  in onore della moglie Caterina e progettato dall’architetto italiano Nicolò Michetti. Al suo interno, nelle sue importanti sale si trovano dipinti di artisti italiani, tedeschi e olandesi, porcellane e sculture per un totale di quasi mille opere. Il lungomare di Pirita Tee è una lunga strada costiera di circa quattro km che guarda verso il Golfo di Finlandia. Ideale per camminate, per fare jogging o pedalate, prosegue poi nella Spiaggia di Pirita.
Ad ovest della Città Vecchia  troviamo la località Rocca Al Mare, dove si trova un museo a cielo aperto che ricostruisce la vita agreste in Estonia fino alla fine del XIX sec., con ricostruzioni di case (oltre una settantina) e situazioni di vita quotidiana. Il museo si estende su una superficie di oltre 80 ettari e deve il nome al proprietario che possedeva il terreno originariamente.