Solvitur ambulanda
N.B.: Il presente blog non costituisce testata giornalistica, né ha carattere periodico, essendo aggiornato in base a come pare a me. Pertanto, non può essere considerato in alcun modo un prodotto editoriale, ai sensi della Legge n. 62 del 7-03-2001.

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venerdì 14 settembre 2012

Petrushka, non ce n'è mezza...

Petrushka è un personaggio della tradizione russa, una marionetta dal corpo di segatura e la testa di legno che prende vita e riesce a provare dei sentimenti. simile per molti versi al nostro Pinocchio, essere plasmato dal legno che prova passioni le quali provocano il desiderio di vivere una vita umana. Le sue movenze a scatti possono essere interpretate come il tormento delle emozioni imprigionate in un corpo di burattino.
Petrushka è protagonista di una storia, i cui altri personaggi sono Ballerina, il Moro e il mago Ciarlatano.
Petrushka mena una vita miseranda fra le angherie di Ciarlatano e si strugge per l'amore non ricambiato per la marionetta Ballerina, cui egli tenta continuamente di dichiararsi, venendo puntualmente respinto. Per giunta  Ballerina è attratta dal Moro, con cui inizia una relazione.

Ho sentito parlare di questo personaggio qualche mattina fa alla mia trasmissione radiofonica preferita, dal titolo Qui Comincia, che va in onda tutte le mattine su Radio 3. Ho trovato delle affinità tra me e questa marionetta in questo sentimento di amore non corrisposto, visto che di recente ho provato questa esperienza che mi ha segnato e dalla quale sto ancora faticosamente cercando di uscire.

Ieri sera sono andato a sentire un concerto della mia amica Rita Cervellati, valida e valente cantante jazz. Tra i pezzi della serata ha proposto una bellissima interpretazione di uno standard dal titolo (I Don't Stand A) Ghost Of A Chance With You, che se lo volessimo tradurre un po' alla bolognese suonerebbe come "Non ce n'è mezza". Anche questa è una storia - in musica - di un amore non corrisposto.

In questa sede voglio condividere con voi una scena del balletto di marionette Petrushka e una versione di Billie Holiday della canzone sopracitata.

Buona visione e buon ascolto.





lunedì 3 settembre 2012

Estate

La pioggia e i temporali finalmente giunti dopo tre mesi di secco (la terra ringrazia) stanno cancellando quel che resta dell'estate con un colpo di spugna.

Strana stagione l'estate, ci lamentiamo del caldo afoso e delle zanzare quando l'abbiamo, salvo poi rimpiangerla quando le foglie iniziano a cadere.

Una volta, prima del trasloco che ha contribuito a farmelo perdere, possedevo un disco di Chet Baker, che ascoltavo spesso. Era una raccolta ed una delle tracce era un arrangiamento di "Estate" di Bruno Martino.
Mai canzone fu più adeguata come adesso, sono impossibilitato a farvi sentire la versione di cui ero in possesso, comunque condivido con voi questa traccia scovata su Youtube, si tratta di un'estrapolazione di una registrazione databile al 1983, il pezzo fu inciso a Bruxelles. Buon ascolto, se anche voi volete lasciarvi pervadere dalla dolce e sacra malinconia che scaturisce dalle note di questo brano.

A la prochaine.


mercoledì 29 agosto 2012

Un'alternativa per uscire dalla crisi

Eccomi ritornato dal luogo di villeggiatura agostano, fra poco si ricomincerà a lavorare. Ho trascurato per un po' il blog, tuttavia nel frattempo ho lavorato a questo progetto, che ora condivido con voi.
Si tratta di un testo che voglio riproporre per via della sua attualità nonostante sia datato 1969. Si tratta della sintesi del rapporto al XII Congresso del PCI a Bologna, datato 8 febbraio 1969. L'allora segretario Luigi Longo, partigiano e costituente, a capo del più importante, organizzato, avanzato e democratico partito comunista dell'Europa occidentale fa una lucida ed esaustiva analisi della situazione politica, economica e sociale dell'epoca, tutt'ora attuale alla luce degli ultimi fatti di cronaca politica, con un capo del governo non eletto per mandato popolare (bensì nominato da un presidente della repubblica attualmente in aperto contrasto con uno dei tre poteri dello Stato, quello giudiziario), il quale getta fumo negli occhi al popolo italiano ventilando che l'anno prossimo, nel 2013, usciremo dalla crisi. Questa qui è fantascienza e fantapolitica nella misura in cui l'attuale governo non sta predisponendo politica alcuna in favore dei giovani. Le affermazioni di Monti rimangono pertanto su un piano, a mio avviso, di pura demagogia ed utopia.
Al di là comunque delle vostre personali convinzioni politiche vi invito a leggere il testo , ma non prima di aver liberato la mente da possibili preconcetti ideologici. Rimarrete sorpresi da una visione ampia ed includente:
 
 
Buona lettura e buone riflessioni. A presto.

sabato 21 luglio 2012

Rieccomi

Rieccomi di nuovo qui dopo un'assenza di poco più di un mese. Uno scampolo di ferie a giugno, una trasferta per lavoro, poi ancora lavoro, lavoro, tanto lavoro, molto lavoro mi hanno distolto dalle mie nicchie di soddisfazione.
Oggi voglio cogliere l'occasione di trattare un argomento che riguarda il paese dove sono cresciuto e dove tutt'ora vivo, Castel Maggiore, paese di poco meno di 20.000 anime nell'immediata periferia nord bolognese, paese che entrerà a far parte della futura (forse) città metropolitana, paese sviluppatosi prevalentemente nell'800 come borgo a vocazione industriale, il secondo più importante dell'allora Stato Pontificio, con gli opifici che poterono nascere grazie all'utilizzo della forza idrica del Canale Navile, paese che un nostro concittadino storico - forse di mentalità più scientifica che umanistica - avrebbe definito senza nessun pregio artistico o storico e per essere il paese di origine del pilota Alex Zanardi.
In parte questa affermazione è vera ma vorrei dissentire e la fotografia in questo caso mi fornisce argomenti di trattazione.
Lo spunto per questo post è dato da un paio di mostre fotografiche, una, tenutasi ad ottobre dell'anno scorso a cura di Antonio Marcuz, l'altra riguarda la "seconda parte" di T arcôrdet Castèl Mażåur? (Ti ricordi Castel Maggiore?), mostra dedicata a scatti del passato e vecchi dagherrotipi del nostro comune.
Antonio Marcuz è il fotografo ufficiale del Comune di Castel Maggiore. Da anni ritrae scorci inattesi, paesaggi inconsueti e sorprendenti di Castel Maggiore, ed eventi civili, culturali, associativi che segnano la vita della nostra comunità. E il fatto di ritrarre scorci inattesi, paesaggi inconsueti e sorprendenti si pone in contrasto con l'affermazione che vorrebbe il paese mancante di pregi e di attrattiva, nella misura in cui l'occhio attento ed osservatore del nostro amico fotografo è riuscito a tirare fuori la bellezza e la metafisica da cose piccole, semplici, minimali.
Vi pongo qui di seguito una selezione di scatti, giudicate voi nella misura in cui il concetto di bellezza varia da individuo ad individuo.








 
Queste qui di seguito sono vecchie foto in bianco e nero,  vecchie cartoline dell'800 rieditate che ritraggono il borgo di Castel Maggiore dell'epoca. Il baricentro ora si è spostato da tutt'altra parte, dalla parte sinistra della ferrovia che collega Bologna a Venezia e quello che all'epoca era il centro del paese ora è solo una delle tante frazioni, Castello, quella più storica.

 Il paesaggio circostante il vecchio torresotto di San Pierino al giorno d'oggi è - a mio avviso - deturpato dalla costruzione di un anonimo edificio casermone e da un palazzo che, quando sarà ultimato, sarà in vetro e ferro.

 Il Viale dei Pioppi, oggi via Matteotti



 Il Palazzo Hercolani, chiuso, murato e disabitato ormai da lungo tempo, necessiterebbe un restauro

 Un'altra veduta del Viale dei Pioppi...

 ...successivamente i Pioppi vennero tagliati e il viale prese il nome di Viale Umberto I

 Altra veduta del vecchio borgo

 
Perché ho deciso di postare queste fotografie? Perché l'esercizio della memoria storica è importante e non mi stancherò mai di ripetere che - per quanto ormai banale possa apparire questa affermazione - riusciamo a capire dove stiamo andando solo se capiamo e sappiamo da dove veniamo e non dimentichiamo il nostro passato.
Vi faccio un esempio di come possiamo aver cancellato un pezzo di memoria del nostro passato. Tutti gli anni a Capodanno si tiene il famoso concerto a Vienna con i Wiener Philarmoniker ed ogni concerto si chiude, tra battiti di mani e gaudio degli spettatori, con la Marcia di Radetzky. Badate bene, ho detto gaudio degli spettatori laddove invece ad esempio quantomeno noi italiani dovremmo dissociarci da questa festa, in quanto Radetzky, nelle sue vittorie militari contro Carlo Alberto durante il Risorgimento è ricordato ancora oggi in Austria come un eroe nazionale, quando per noi fu il simbolo dell'occupazione austriaca sul suolo italico e l'uccisore di molti patrioti italiani.
Io con la marcia di Radetzky non festeggio. E sapete perché? Perché io coltivo la memoria storica. Coltivare la memoria storica è un esercizio costante.

lunedì 18 giugno 2012

Tajévval

File di alberi sugli argini dei canali, nella Bassa occidentale bolognese, le chiuse, il piattume che permette di distinguere chiaramente, nelle giornate di sereno, quando non c'è la tipica foschia dell'umidità, le tre fasce del territorio: la pianura, la collina e l'Appennino, fino al Monte Cimone. I tramonti più struggenti della mia vita li ho sempre visti nella Bassa, con gli orizzonti delimitati dai pioppeti e dalle sparse case coloniche con l'adiacente stalla e ancora il pozzo, costruzioni che si possono far risalire, a volte, addirittura al Diciassettesimo secolo.
Tivoli, non il comune in provincia di Roma, bensì la frazione nel comune di S. Giovanni in Persiceto, è già di per sé un luogo limitato e circoscritto. Una frazione non bastava, bisognava crearne un'altra lì vicino, Ducentola.
In frazione Ducentola alcuni amici hanno compiuto la scelta coraggiosa di mettersi in società per comprare un vecchio rustico della seconda metà dell'Ottocento, che sarà da ristrutturare. La casa è così grande che ci possono vivere tranquillamente tre famiglie da stare larghe e non pestarsi i piedi. E tutt'intorno un ettaro di terra dove pianteranno alberi da frutto, ortaggi e dove insedieranno animali da cortile. E poi la frescura, il silenzio, la quiete olimpica, assoluta e cosmica della sera che ti rimette in pace con te stesso, il tuo prossimo e il mondo. Che bel posto, che cielo stellato ho potuto ammirare ieri sera, che bella festa in compagnia di tanta gente buona e simpatica, riunitasi per l'occasione di questo "battesimo laico", per augurare ogni bene a questi bravi ragazzi generosi che hanno deciso di intraprendere questo cammino di decrescita felice. Vi auguro tutto il bene del mondo e buon cammino, di cuore.
Non è vero che la pianura è solo piatta e mancante di peculiarità. La pianura allena ad avere non una visione globale o di insieme, bensì abitua l'occhio al particolare, alla visione di elementi, di singole caratteristiche del paesaggio, di scorci, per trovare alle volte angoli che hanno ancora la capacità di farci struggere e commuovere. Smettiamola di consumare questo territorio, il nostro territorio e preserviamo l'ambiente agreste che a volte siamo ancora in grado di ritrovare, bello e quasi inalterato, nonostante ormai ci sia tutto questo inurbamento quasi selvaggio che fa perdere i contorni alle cose in periferia e rende tutto promiscuo, indistinto, scevro ormai di ogni vera funzione primigenia.

sabato 9 giugno 2012

Miopia

Vi ricordate quando più di 30 anni fa l'ultimo grande statista che abbiamo avuto in Italia, Enrico Berlinguer, aveva sollevato la questione morale contro l'allora sistema di potere imperante? Egli disse che i partiti erano macchine di potere e di clientela che gestivano interessi, i più disparati, contradditori e a volte loschi. Nel lanciare la questione morale, ovviamente Berlinguer ci teneva ad affermare la diversità del suo Partito rispetto agli altri partiti. Il suo sogno e la sua speranza erano quelli di cambiare in meglio l'Italia.
I partiti di allora non esistono più, eppure il problema della questione morale in Italia resta, metastatizzato ormai anche nel settore privato.
Non è più solo un problema di politici che prendono illecitamente soldi per finanziare illecitamente i loro partiti, oppure politici che favoriscono amici per ricevere in cambio denaro e altre cose. Stiamo parlando di un cancro che ha raggiunto ogni aspetto della società civile e che investe pure banchieri e calciatori, arrivati a percepire tangenti per truccare le partite.
Ne consegue che la questione morale, da problema meramente politico, si è trasformata in un problema economico, arrivando forse persino ad essere causa del mancato sviluppo del nostro Paese nell'ultimo ventennio. E allora forse la si dovrebbe smettere di voler ogni volta attaccare ed intaccare l'articolo 18 e si dovrebbe iniziare a domandarsi che forse le nostre aziende, se non crescono, non è colpa dell'articolo 18, ma dell'amoralità diffusa nel nostro Paese. E vi spiego perché. E' stato statisticamente rilevato che nei Paesi ove c'è più fiducia nell'onestà e rettitudine dei propri concittadini le imprese sono di dimensioni più grandi. Questo perché si crea una situazione favorevole al titolare, il quale può delegare i propri poteri perché si fida dei propri dipendenti (più delega, più alto potrebbe essere il rischio che un dipendente infedele approfitti della situazione, rubando o arricchendosi alle sue spalle).
Ne consegue che la mancanza di fiducia rende impossibile delegare e questo porta le imprese a rimanere concentrate, con il controllo esso stesso concentrato nelle mani di una sola persona o un gruppo ristrettissimo di persone, le porta a rimanere medio-piccole, a non crescere, espandersi.
La mancanza di fiducia impedisce anche la meritocrazia e i sistemi di selezione secondo principi meritocratici. Se si teme che un dirigente possa essere non degno di fiducia, allora si preferisce puntare sul familiare (nipote o comunque parente) o sull'amico, anche quando costui dimostra di non essere totalmente competente. Ecco perché la qualità dei nostri manager in Italia non è delle migliori, perché si preferisce premiare la fedeltà alla "famiglia" piuttosto che le competenze.
Perché in Italia non ci fidiamo? Perché sappiamo che nel nostro Paese prevalgono i furbi a scapito degli onesti. In Italia abbiamo un conflitto di interessi assai diffuso e tuttavia non viene percepito come un problema al quale dare immediata risoluzione.
Per tornare alla politica, fintantoché la questione morale continuerà ad essere sfruttata come mero pretesto per affermare la presunta superiorità della propria parte politica rispetto agli avversari, ogni tentativo di riforma sarà sempre destinato a fallire. Ribadisco, senza fare demagogia o populismo alla Beppe Grillo - lungi da me - marce sono le persone al potere perché marcio è il sistema di valori. Per adesso siamo solo allo stadio di consapevolezza diffusa tra la popolazione che questa amoralità diffusa non può più essere tollerata. Però torno a dire che la politica non adrebbe rottamata, bensì risanata e riformata (richiamandomi a quell'articolo della Costituzione italiana che sancisce che i partiti sono necessari allo scambio democratico nel Paese). E se questa consapevolezza sull'amoralità della politica in Italia la trasferissimo anche sulla crisi economica nera che stiamo vivendo adesso? Forse nascerebbe una coscienza concreta su questo argomento che non c'è più tempo di aspettare e che bisogna cambiare.
Per concludere dico che sono e rimango un idealista, una persona con un concetto "alto" della politica, che non deve essere mestiere o strumento utilizzato per il proprio tornaconto personale, bensì deve essere una missione, una dedizione nei confronti del prossimo. Ribadisco che per me i partiti non sono tutti uguali e penso a tutti quegli esponenti politici del passato che si sono distinti per integrità morale, per essere persone che, dedicandosi alla politica, apprendevano seriamente tecniche di gestione della cosa pubblica e anche un'etica della dedizione. Queste persone hanno fatto tutte una generosa gavetta nelle associazioni giovanili prima di entrare nel partito e per la scelta fatta non hanno messo su nessua impresa privata, nessuno studio professionale, nessuna fabbrica o impresa edile e pertanto, una volta entrati in Parlamento o al Governo, non dovevano né salvaguardare, né incrementare le proprie ricchezze o rendere favori a chicchessia.
Prendete nota.

***

Inorridiamo nei confronti della Russia di Putin che continua a difendere a spada tratta il regime di Assad proprio perché la Siria è il principale acquirente delle armi di fabbricazione russa.
Ma se solo sapeste che la dittatura del Turkmenistan, l'autoritario Gabon o l'Algeria sono solo alcuni degli acquirenti delle esportazioni di armi di fabbricazione italiana inorridireste anche in questo caso. Stiamo parlando di zone di conflitto o zone dove si verificano reiterate violazioni dei diritti umani. Il settore degli armamenti è uno dei pochi a non conoscere crisi. Complimenti.

venerdì 1 giugno 2012

Latvian Folk

http://soundcloud.com/benjipage/sets/latvian-folk?utm_source=soundcloud&utm_campaign=share&utm_medium=blogger&utm_content=http://soundcloud.com/benjipage/sets/latvian-folk

Maltuves balsis

http://soundcloud.com/aivars-jekabs-zarins/maltuves-balsis?utm_source=soundcloud&utm_campaign=share&utm_medium=blogger&utm_content=http://soundcloud.com/aivars-jekabs-zarins/maltuves-balsis

Lettera al terremoto

Ricevo e condivido la lettera di un cittadino del comune di Calderara di Reno (BO), scritta parafrasando un monologo di Carlo Lucarelli. Semplicemente bellissima.

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Gentile Sig. Terremoto,

c'è una cosa che non hai capito della mia terra, ora te la racconto:

Per chiamarci non basta una parola sola: Emilia Romagna, Emiliano Romagnoli, ce ne vogliono almeno due; e anche un trattino per unirle, e poi non bastano neanche quelle.
Perché siamo tante cose, tutte insieme e tutte diverse, un inverno continentale, con un freddo che ti ghiaccia il respiro e un'estate tropicale che ti scioglie la testa, e a volte tutto insieme come diceva Pier Paolo Pasolini, capaci di avere un inverno con il sole e la neve, pianure che si perdono piatte all’orizzonte e montagne fra le più alte d’Italia, la terra e l’acqua che si fondono alle foci dei fiumi in un paesaggio che sembra di essere alla fine del mondo.
Città d’arte e distretti industriali, le spiagge delle riviere che pulsano sia di giorno che di notte, e spesso soltanto una strada o una ferrovia a separare tutto questo; e noi le viviamo tutte queste cose, nello stesso momento, perché siamo gente che lavora a Bologna, dorme a Modena e va a ballare a Rimini come diceva Pier Vittorio Tondelli, e tutto ci sembra comunque la stessa città che si chiama Emilia Romagna.
Siamo tante cose, tutte diverse e tutte insieme, per esempio siamo una regione nel cuore dell’Italia, quasi al centro dell’Italia, eppure siamo una regione di frontiera, siamo anche noi un trattino, una cerniera fra il nord e il sud, e se dal nord al sud vuoi andare e viceversa devi passare per forza da qui, dall’Emilia Romagna, e come tutti i posti di frontiera, qualcosa prende chi passa e soprattutto  chi resta, ad esempio chi è venuto qui per studiare a lavorare oppure a divertirsi e poi ha deciso di rimanerci tutta la vita…in questa terra che non è soltanto un luogo, un posto fisico dove stare, ma è soprattutto un modo di fare e vedere le cose.
Perché ad esempio qui la terra prende forma e diventa vasi e piastrelle di ceramica, la campagna diventa prodotto, e anche la notte e il mare diventano divertimento, diventano industria, qui si va, veloci come le strade che attraversano la regione, così dritte che sembrano tirate con il righello.
E si fa per avere certo, anche per essere, ma si fa soprattutto per stare, per stare meglio, gli asili, le biblioteche, gli ospedali, le macchine e le moto più belle del mondo.
In nessun altro posto al mondo la gente parla così tanto a tavola di quello che mangia, lo racconta, ci litiga, l’aceto balsamico, il ripieno dei tor
tellini, la cottura degli gnocchi fritti e della piadina e mica solo questo, sono più di 4000 le ricette depositate in Emilia Romagna; ecco, la gente lo studia quello che mangia, perché ogni cosa, anche la più terrena, anche il cibo, anche il maiale diventa filosofia, ma non resta lassù per aria, poi la si mangia. Se in tutti i posti del mondo i cervelli si incontrano e dialogano nei salotti, da noi invece lo si fa in cucina, perché siamo gente che parla, che discute, che litiga, gente che a stare zitta proprio non ci sa stare, allora ci mettiamo insieme per farci sentire, fondiamo associazioni, comitati, cooperative, consorzi, movimenti, per fare le cose insieme, spesso come un motore che batte a quattro tempi, con una testa che sogna cose fantastiche, però con le mani che davvero ci arrivano a fare quelle cose li, e quello che resta da fare va bene, diventa un altro sogno.
A volte ci riusciamo a volte no, perché tante cose spesso vogliono dire tante contraddizioni. Che spesso non si fondono per niente, al contrario non ci stanno proprio, però convivono sempre.
Tante cose tutte diverse, tutte insieme, perché questa è una regione che per raccontarla un nome solo non basta.
Ora ti ho raccontato quello che siamo, non credere di farmi o farci paura con due giri di mazurca facendo ballare la nostra terra, io questa terra l’amo e come mi ha detto una persona di Mirandola poche ore fa… questa è la mia casa e io non l’abbandonerò mai.

M. B.
Leggere quello che ha scritto un abitante del comune di Cento (FE) forse può aiutare il morale a terra a causa del terremoto a risollevarsi un po'.

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EMILIA

Emilia è nel boato sordo nella notte, quello che precede di un istante il terremoto e sveglia anche chi ha il sonno pesante.
Emilia è nel sangue degli operai che, nel tentativo di portare a casa “due lire”, se ne sono andati via. Per sempre.
Emilia è nella tenacia di chi resta. Frustrato e spossato, ma resta.
Emilia è nei morti, nei feriti, negli sfollati, nei disoccupati e nelle occhiaie di chi continua a timbrare il cartellino nonostante le notti insonni, alla costante ricerca di un ritorno alla normalità.
Emilia è nelle lacrime di quelli che hanno perso la casa e/o il lavoro, ma ne hanno anche per commemorare GIOVANNI FALCONE e MELISSA BASSI.
Emilia è nella riconoscenza della vecchietta che si affaccia alla finestra per applaudire un gruppo di volontari armati di guanti e pale e, quando i giovani le rispondono che purtroppo non è stato consentito loro di fare molto, comunque li apostrofa come eroi.
Emilia è nell’orgoglio di chi si rifiuta di far finta di niente e di volger lo sguardo dall’altra parte.
Emilia è nel salame spartito con gli sfollati del campo sportivo.
Emilia è nelle strette di mano, nei calici di Lambrusco e nelle bestemmie ed imprecazioni dei vecchi che continuano a darsi appuntamento al bar, per una partita a carte.
Emilia è nella vetreria che non c’è (più), eppure c’è.
Emilia è nell’altruismo del vicino di casa che ci viene a cercare se non ci vede in strada, dopo la scossa.
Emilia è nella consapevolezza di essere fortunati, nella sfortuna.
Emilia è nella pazienza del giovane che ha sempre tre minuti per fermarsi ad ascoltare l’anziano che magari non ha niente da dire, ma quel niente è tutto quel che gli è rimasto.
Emilia è nel suono di una chitarra e nel profumo di un piatto di fumanti tortellini, nei SOCMEL e negli SCULASON.
Emilia è nella voce rotta dall’emozione dell’amico che ti dice che andrà tutto bene, anche se nemmeno lui sa più a che santo votarsi.
Emilia è nelle immagini che passano in rapida sequenza nella testa mentre fissiamo le pareti della tenda o il finestrino della macchina in cui dormiamo e fuori è buio ma noi, di dormire, non ne vogliamo sapere.
Emilia è nel cuore di chi sa che non c’è niente da ridere, ma trova sempre il modo di strappare un sorriso.
Emilia è nell’ironia di chi si gioca un caffè su epicentro, magnitudo e profondità di ogni singolo evento sismico, perché adesso siamo anche tutti un po’ geologi.
Emilia è nella fantasia con la quale ciascuno di noi ha almeno una teoria sulle cause di questa anomala serie di terremoti: gli esperimenti degli americani, le perforazioni esplorative di Rivara, gli ufo, lo spread, colpa d’Alfredo, il gol di Muntari.
Emilia è nel sisma che apre un nuovo squarcio nel muro e ci violenta l’anima, nel momento stesso in cui iniziamo a pensare che il peggio è ormai alle spalle.
Emilia è nell’angoscia che ci prende quando non riusciamo a metterci in contatto coi nostri cari.
Emilia è nel buonsenso col quale ci tratteniamo dal comporre tutti i numeri della rubrica ad ogni “onda”, per non intasare le linee telefoniche e, così facendo, ostacolare i soccorsi.
Emilia è nella testa di chi pensa che un abbraccio vale più di un iPhone e che c’è vita anche senza SUV.
Emilia è nelle cantonate geografiche di alcuni giornalisti: Bondano, Poggio Recanatico, Finale Emiliana, Poggio Rustico, Sant’Agnese e così via…
Emilia è nella denuncia di qualsiasi tentativo di abuso e tentativo di lucro sul dramma, tramite sciacallaggio, telegiornali “plastificati” e usurai travestiti da venditori di appartamenti, camper e tende.
Emilia è nell’indignazione di fronte alle idiozie vomitate da rappresentanti del popolo che si vantano di essere esponenti di una terra che non esiste, rivelandosi persone piccole come nani da giardino.
Emilia è nel triestino e nel trapanese che, pur abitando a “millemila” chilometri di distanza da casa nostra, ci ricordano quello che altri hanno cercato di farci dimenticare, e cioè che l’Italia è UNA ed INDIVISIBILE.
Emilia è nell’incapacità di una classe politica che non conosce alternative all’esprimere il proprio cordoglio ed all’aumentare il prezzo della benzina.
Emilia è nel sudore di chi potrebbe SFILARE, ma preferisce SPALARE.
Emilia è nella dignità, l’energia, la forza, l’emozione, la preoccupazione e la combattività dei suoi abitanti.

domenica 27 maggio 2012

Eurovision Song Contest 2012

Ieri sera su Rai 2 è andata in onda la finale dell'Eurovision Song Contest 2012. Il paese ospitante quest'anno era l'Azerbaijan e la serata con i 26 finalisti si è tenuta nella cornice della Crystal Hall di Baku, la capitale.
Volevo innanzitutto dire due paroline su questo paese. Dopo ogni canzone e prima dell'inizio della successiva andavano in onda immagini (forse un pochino encomiastiche) che volevano mostrare al mondo le bellezze della natura e dell'aerchitettura, la storia, gli usi, i costumi e le tradizioni dell'Azerbaijan. Non metto in dubbio che l'Azerbaijan sia un paese con il suo fascino, ricco di storia, cultura e bellezze, ma molta è la strada ancora da percorrere per quanto riguarda i diritti civili ed umani, per lo meno in base a quello che giunge alle orecchie di persone accorte come me dalla stampa internazionale o dalla stampa critica.
Detto questo vorrei anche confermare che purtroppo in Italia questa tenzone musicale non riceve ancora da parte della stragrande maggioranza delle persone la dovuta attenzione che si meriterebbe, mentre in altri paesi, soprattutto nei paesi scandinavi e nei paesi baltici questa manifestazione è considerata quasi una religione, quasi con la stessa sacralità di una messa. Ad esempio l'Estonia è andata in finale con Ott Lepland e la sua canzone "Kuula", che in estone vuol dire "ascolta". Ecco il video



L'Italia ha comunque schierato un pezzo da novanta, la bella e brava Nina Zilli, che ha cantato Out Of Love (L'amore è femmina). La Zilli si è classificata nona. Ecco il video:


La competizione è stata vinta dalla Svezia, dalla cantante Loreen, con il suo brano "Euphoria". Bella coreografia e bella ragazza, comunque in fatto di bellezza non erano da meno le varie Sabina Babayeva (Azerbaijan), Ivi Adamou (Cipro), Soluna Samay (Danimarca), la grande e sensuale Anggun schierata dalla Francia, la greca Eleftheria Eleftheriou, la rumena Mandinga, la spagnola Pastora Soler e l'ucraina Gaitana.


LINK:
http://www.eurovision.tv/page/baku-2012

martedì 22 maggio 2012

Ci vorrà del tempo...

...prima che la ferita si cicatrizzerà. Le ferite su questa terra d'Emilia sono anche le nostre ferite, ferite di gente che abita questo pezzo di Pianura Padana a queste latitudini.
Lo spavento è stato fortissimo, ci vorrà del tempo prima che riusciremo a dimenticare (ma forse non riusciremo del tutto) quel momento, quegli interminabili 20 secondi in cui una scossa del grado 5.9 della scala Richter ha fatto temere per le nostre vite, ci ha fatto sentire impotenti di fronte all'insensata forza di una natura a volte madre benevola e a volte matrigna cattiva.
Un pensiero deve andare ai morti, in massima parte operai (ma perché ci devono andare di mezzo sempre loro?), gente che quella notte lavorava per guadagnarsi il pane in fabbriche che sono lo specchio della voracità e dell'insensatezza produttivista di un capitalismo che non vuole fermare mai le sue macchine, oppure persone che, semplicemente per un beffardo scherzo del destino si sono trovate lì quella notte, ma avrebbero dovuto essere altrove, e però erano in sostituzione di un collega assente.
Un pensiero affettuoso deve andare ai quasi 5000 sfollati che dormono in tende sotto la pioggia o in alloggi di fortuna. Ancora non si sa quando potranno tornare in possesso delle loro abitazioni, addirittura se potranno rientrare in possesso delle loro abitazioni.
Un pensiero a tutti i volontari, i vigili del fuoco, gli operatori della Protezione Civile, a tutta quella gente che sta lavorando per aiutare queste persone, per farle sentire meno sole, per aiutarle a superare il trauma.
I danni sono incalcolabili, da dove potranno venire i fondi per la ricostruzione? Piango di rabbia a vedere tesori dell'arte e del patrimonio storico-artistico locale in pezzi, le municipalità non hanno denaro da stanziare per il restauro.
Per fortuna nel mio paese non si sono verificati danni, tuttavia la mia mente non smette mai di pensare che l'epicentro è stato a soli 35 km da casa mia, un soffio.
Sono molto triste, tutti noi qui siamo molto tristi. Speriamo di poter spazzare via un giorno molto presto tutta questa profonda tristezza dell'esistenza e tornare a vivere le nostre vite serenamente. Speriamo di poter voltare pagina molto presto e ricominciare da capo. Ho colleghi, amici e loro familiari moralmente a pezzi, soffro per loro e per le difficoltà che stanno esperendo, mi piange il cuore. Ma il sole deve tornare a risplendere nelle nostre vite.

lunedì 21 maggio 2012

mercoledì 25 aprile 2012

L'arcobaleno perfetto

Dopo una tediosa domenica di pioggia scrosciante ed incessante non poterne più di lobotomizzarsi sul divano di fronte alla TV. Uscire di casa e prendere la macchina che sta ancora piovendo ma c'è il sole, andare a caccia dell'arcobaleno perfetto e scovarlo!
Mi è capitato due domeniche fa mentre con l'auto vagavo per la Bassa tra Castel Maggiore e Pieve di Cento, passando per Argelato e Castello d'Argile.
Peccato solo che non avevo con me la macchina fotografica e peccato anche che questo capolavoro di foto qui sotto non sia mio ma l'abbia scovato sul web. Ad ogni buon conto è così bella che voglio condividerla con voi!

Festa della Zuppa 2012 - Bologna

























Orlando Biddau



Con questo post intendo concludere il ciclo, iniziato a gennaio di quest'anno, sui poeti italiani contemporanei. Siamo partiti da Milano per giungere a Roma, per poi proseguire verso Gaeta e concludere il nostro viaggio in Sardegna.

Orlando Biddau, vincitore del prestigioso premio Ozieri (l'unico premio che il poeta conserva visto che tutti di tutti gli altri premi se n’è disfatto gettandoli nell’immondizia) e riconosciuto ormai a livello nazionale, è espressione della poesia sarda contemporanea.
Le principali visioni e le risposte esistenziali che il poeta ha maturato sulla vita riguardano principalmente l’amore per la natura e gli animali.
«Il Comune di Modolo celebra con orgoglio i suoi poeti [Orlando Biddau e Peppino Deriu], che hanno contribuito a dare un’immagine ‘romantica’ del paese. Modolo si conferma un importante centro culturale e artistico in Planargia e lo dimostra il suo impegno nella diffusione del patrimonio locale, quale strumento per contribuire positivamente alla crescita di un progetto di sviluppo e condivisione comune» ha dichiarato Omar Hassan, Sindaco di Modolo.
Orlando Biddau è innanzi tutto un poeta “scomodo”, un grande poeta dalla sensibilità acutissima, le cui opere sono state fin qui trascurate, a prescindere dai riconoscimenti ufficiali attribuiti all’autore. Orlando Biddau è autore di varie raccolte, che vado ad elencare qui di seguito:
"Le verdi vigilie", dove sarebbe contenuta la quintessenza della saggezza ancestrale dei poeti biblici, un dolore pacato e intenso come soltanto Montale, Leopardi, Rimbaud e Tasso sono riusciti ad esprimere. Si tratta di una vera indagine leopardiana sulla memoria sollecitata a recuperare il senso di un’attesa del futuro che ostinatamente non si adempie in nessun presente.
Poi "L’anima degli animali", che si fa retaggio di redenzione animale, ed è la più sconcertante delle sette raccolte: vi si annida il male di vivere degli animali tutti del Creato, ma cantato con una voce accorata che ricorda Tasso e Leopardi. L’orizzonte poetico viene ritmato, dolorosamente, ed espressionisticamente, dalle immagini di animali uccisi e
torturati – scannati, accecati, bruciati con la benzina.
E poi "L’inverno inconsolabile", per lo stesso poeta celebrazione di un rito funebre di un amore caparbio e feroce, che si alimenta di sofferenza estrema.
Ancora "Una fame di vento", molteplice disincanto dall’inganno della vita, animale e umana, assieme a "Il gufo cieco", che si fa laconico messaggio di salvezza degli animali.
E poi due raccolte, "Sale d’acqua e di grano", che è un rischiararsi dell’epopea biblica e divina. Infine la settima e ultima raccolta, "Nostalgia della memoria", che vuole essere un omaggio alla Voce che lo segue dall’aprile del 1971, e che è la rivelazione della sua missione secondo l’ultima delle “Illuminatons” del poeta veggente Arthur Rimbaud.
Accanto alla poesia, un’opera in prosa, il duro romanzo autobiografico "Predestinazione" ambientato in parte in Sardegna ed in parte in una clinica psichiatrica,  imperniato sulla figura di un prete odiato ed amato, don Angelo Chessa, parroco di Modolo in Planargia. Come non pensare alla polemica del parroco con i suoi compaesani, che ritroviamo pari pari oggi nella poesia di Peppino Deriu, Sos oppressores modolesos? Un legame di amore e di odio con quei cittadini definiti serpes sine ulla affectione, che ritorna nelle poesie di Orlando, alimentando una sofferenza che è anche un modo per tentare di capire gli altri, di essere di nuovo accolto in pace dal parroco e dalla comunità.
Forse allora occorre partire dalla tormentata biografia del personaggio. Orlando Biddau nacque da genitori sardi a Fiume nel 1938: un trauma vivissimo furono per lui, dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale, il viaggio in nave (un piroscafo nero, dall’aspetto terrificante), il forzato rientro in Sardegna, la fame, l’angoscia della madre per l’assenza del padre ancora in guerra.
Modolo, il paese di origine della famiglia, ha rappresentato in quegli anni un piccolo universo, un paradiso di pace in un mondo sconvolto dalla guerra, e questo non solo per la famiglia Biddau e per gli altri sfollati. E anche per i soldati lontani, come Peppino Deriu che nel 1943 continuava a guardare a Modolo da Palau con nostalgia e rimpianto in tre bellissime cartoline galluresi. Lo stesso Biddau affermerà: "Modolo è l'ambiente ideale per la poesia. Tutto scorre lentamente, senza forti emozioni. La serenità che trasuda dal paese invita alla riflessione". La vita a Modolo conserva ancora un sapore antico, di cui la brocca per l’acqua da bere è un po’ il simbolo, come nel  Racconto d’estate di Orlando Biddau, quando la brocca di creta e l’anfora d’argilla diventano un assillo, per la paura dell’acqua sparsa, per gli immaginari sortilegi, per le atmosfere al crepuscolo.
E poi il rientro del padre dalla guerra sfortunata, la rabbia, la povertà: «giunse l’uomo spezzato dalla guerra, / faceva vino cattivo, era intrattabile: / un pomeriggio di settembre la sua donna / se lo trascinò in vigna con i bambini. / Il rigoglio dei tralci, la brezza più dolce / della carezza materna compirono il miracolo: / la ricomposta famiglia si sentì felice / quale mai sarebbe più stata». Ma la felicità è di breve durata e c’è un prezzo da pagare, tanto che la vigna dopo qualche tempo va definitivamente in malora.
Quella di Biddau fu un’adolescenza inquieta e difficile: «Mi trascino dall’età della ragione / una memoria dilaniata dalla fame / e l’insonnia scavate dentro grembo / nero della madre come incontro al supplizio».
E poi, crescendo il lavoro pesante, da manovale muratore, interrotto da poche settimane d’estate, quando correva a perdifiato «per stancarmi / e rimediare qualche sogno la notte / che mi facesse trasecolare al risveglio; quando si dava nuova lena alla / corsa col cerchio lungo tutte le strade / polverose della contrada … / sporchi e sudati ci si bagnava nudi / al ruscello, tra i fichi e i cotogni / della valle ed il declivio dei vitigni».
Quasi costretto dal parroco, si iscrive poi al Seminario diocesano (dove pure trova degli amici, come Antonio Francesco Spada) e svolge  gli studi superiori a Bosa, la città ancora oggi cara alla memoria, con il suo fiume, con l’isola alla foce del Temo, con i suoi gabbiani incantati, ma anche con la gente che festeggia un carnevale trasgressivo, che a Biddau appare violenta e rissosa, quasi allucinata. Con questa violenza nei confronti di un somarello subissato di colpi e dei cani inseguiti dai monelli.
E poi Cagliari, Genova, nel 1967 la grande occasione, la laurea in Lettere alla Sorbonne di Parigi, il riconoscimento ad Ozieri per le sue poesie in lingua sarda; infine gli studi ad Urbino, alla scuola del rettore Carlo Bo, la tesi di laurea in Lingue straniere.
Un’esperienza, questa di Urbino, interrotta nel 1970, allorché Biddau sceglie il ritorno in Sardegna e l’insegnamento ad Oristano: questa strada però si rivela impossibile:
l’insegnamento è una vita che non fa per lui. Nascono i problemi di salute, le difficoltà, si impone il ritorno nel paese della sua infanzia, Modolo, dove da allora si dedica alla letteratura ed agli studi prediletti, soprattutto ai suoi animali.
La lirica di Orlando Biddau è ricca di stimoli letterari, ma la sua originalità è rappresentata dal ruolo degli animali, visti nelle loro sofferenze, nelle loro angosce, nei loro sentimenti che li avvicinano in modo impressionante agli uomini: «Sono il gufo cieco che non trova / riparo alla bufera notturna». C’è un episodio della sua infanzia che lo condiziona, la morte dell’agnellino che gli era stato regalato da bambino, qui in questi viottoli di Modolo: «giocavo con l’agnello della mia verde infanzia / fu sgozzato per pasqua: interminabile pomeriggio / in cui digiuno girovagai per i campi / tra i miei mesti olivi e lo stormire del vento».
Da allora il demone lo assale e la notte del poeta è ormai popolata da incubi, da rimorsi, dalla disperazione, dall’angoscia, quando si affollano i pensieri di morte, che sono come il lamento del cardellino accecato: «non ho che i miei occhi da cavare, perché la vita è spietata / e l’innocente muore col cuore nel fango».
Il rigoglio della primavera aggiunge angoscia ad angoscia: «Son condannato alla mola dei giorni / e il cavallo cieco non ricorda la strada». E allora la solitudine, il tedio, lo sconforto per quello che non è stato: «Sperperai le mie primavere / in un sonno malsano, e al risveglio, / non avevo che il silenzio del gufo, / ed un verme nel cuore».
La sua disperazione è innanzi tutto una malattia, l’«inadeguatezza a vivere», che lo segna «come i tatuaggi indelebili della gente di mare o di carcere». I ricordi lo tormentano, perché nulla è lacerante come la memoria, che sanguina a toccarla.
C’è un episodio che ha segnato la sua adolescenza, una svolta, un momento tragico, la morte della madre, una donna semplice e triste, che ha lasciato in lui un’impronta profonda: «Sempre più arduo, solitario e smarrito / è il mio sentiero dacché tu non sei più / a consolarmi con le tue mani diafane / e la voce trepida e apprensiva / di chi timida visse in silenzio / un’attesa di lunghi anni d’infamia / e di condanna sognando di visitare di notte una tomba / col mio nome infangato e infranto / che ripulivi con furtive lacrime». E l’infamia è il ricovero del padre e di lui stesso in un ospedale psichiatrico, disposto dalle autorità implacabili e vendicative.  E quando ritrova la memoria si dispera: «T’ho trovato, madre, nel buio / miele d’una lunga insonne notte / d’inverno. Il focolare spento, e il vento ramingo ululava con la gola / nera e insondabile della malaventura, dal camino deserto».
C’è poi un altro personaggio, nelle poesie di Orlando Biddau, ed è Anna, sua moglie, poetessa anch’essa, «una ragazza / minuta e spaurita, permalosa / e imprevedibile, dai capelli corvini / e gli occhi fondi d’apprensione / selvaggia, quasi in essi si dibattesse / una lucertola colta al laccio»: «strana ragazza, che veleno sprizzi a ogni tua / impronta». È lei, con il suo morso di murena, con la sua unghiata di predace, la sola che ha avuto comprensione per il poeta «depresso da idee persistenti di morte», la sola con la quale il poeta può vivere, perché «è meglio la tua scossa di torpedine / insabbiata in un dolore torbido e bieco / che la felicità d’un insano mortorio». È lei, questo «scricciolo spaurito dalla furia delle intemperie», che riesce a donare la gioia nei momenti di abbandono. È lei che consente al poeta di trovare «la mia porzione di cielo e una stella fissa nel nero notturno che
m’avvolge»; è lei che rimette in moto un cuore guasto da anni.
L’uno e l’altra si sorreggono a vicenda contro «la facile pietà, i mormorii e gli sguardi / obliqui» della gente; eppure «per noi non c’è posto al banchetto, / si chiude la porta che dà nella sala». Del resto la convivenza tra i due sfortunati è difficile: «Se il comune sentiero dovesse biforcare, / l’incubo della tua assenza s’addolcirà / nel tempo come sorba o dattero o corbezzolo, / solo per il calore assicurato a una casa».
Alle volte si cerca insieme la fine del tormento: «Solo una morte precoce potrà assicurarci il riscatto e il riposo sotto un unico cippo»; e allora «la tua garrula voce di tordo s’incupirà / subitanea, il tuo riso arguto si rannuvolerà, / e moriremo affiancati in un sonno comune».
C’è nell’opera di Biddau la spiegazione del suo ripiegarsi su se stesso, del suo ritorno alle radici ed all’infanzia, del suo chiudersi nel paesaggio amato della sua valle e del suo piccolo paese, Modolo: nei suoi viaggi all’estero ha sempre cercato i paesaggi che gli ricordassero la sua terra, la sua dimensione vera di vita, quasi come un bimbo che torna nel grembo materno. Così in Spagna: «a Siviglia consumai la mia inquietudine, per ritrovare all’Alhambra / di Granada e nei vicoletti e piazzuole della Cattedrale / il filo conduttore che mi avrebbe riportato al mio paesaggio».
Solo a Modolo, però, può «aspirare l’antico odore d’infanzia, / può rinascere lieve l’illusione, / rinverdire la formula, l’idillio / che schiuda l’incantesimo».
E qui fioriscono i ricordi che lo rasserenano, come i ricordi della casa della sua infanzia: «il granaio con la frutta appesa ad essiccare e i mazzi d’aglio e di cipolle / le ghirlande di sorbe, i grappoli / d’uva, le noci e le mandorle / le grosse collane di fichi, / le pere e le melagrane / e le melerose, odorose / di tutte le primavere di mia nonna ». Le gioie che ancora prova sono quelle legate alle vendemmie, alle mietiture, ai pascoli, alla raccolta delle olive, ma sempre con una punta di disperazione.
Con le sue straordinarie poesie, Orlando Biddau riesce a condurci per mano a toccare le profondità inquietanti di un’esistenza smarrita, di un abisso di pena che è anche fatto di consapevolezza, di vigile osservazione di se stesso, di simpatia e di partecipazione per il dolore del mondo.

POESIE DI ORLANDO BIDDAU

Amore e morte univa due farfalle
Al tanfo d’una chiusa e abbandonata
Cantina di campagna, e noncuranti
Sorgevano e cadevan nubi e lune.
Tristemente ammirato le prendevo
Tra le malcerte dita ed, oh sorpresa –
Mi si schiudevano al sole immenso,
che le dissolse in intreccio di danza.
Tu il sonno verginale della ninfa
Dormi nel buio del mio sudario.
Oh, ridestarmi con te alla prima
Luce stupita d’alba sul creato!…
(Orlando Biddau, poesia contenuta nella raccolta “Le verdi vigilie”)

Il ramo che amo
trema di là d’un fiume
impetuoso e infido;
impossibile giungere
a coglierne il fiore:
vive solo per se stesso.
La canzone che amo
me la riporta il vento
a brani incomprensibili
Di stagioni cadute
con le foglie e i voli,
anche se scocca l’ora.
La donna che amo
ha veleno nelle vene,
è enigmatica e scontrosa,
mi priva del suo miele,
pur sapendo la bufera,
l’uragano che verrà.
Il mare che amo
l’ha colmato il deserto,
vive in qualche quadro antico
di memorie, o in conchiglie
levigate dalla brama,
non si cura dei trascorsi.
Il cielo che amo
prova all’agonia degli alberi
tenera indifferenza,
vive fuori del tempo
partecipe, è impassibile
alle nascite latenti.
(Orlando Biddau, "il ramo che amo…" poesia contenuta nella raccolta “L’anima degli animali”)

Calm Serenity

Link: Calm Serenity

martedì 3 aprile 2012

Elogio della bicicletta

Andrea Satta, cantante del gruppo Têtes de Bois scrive sulla sua rubrica "Dio è Morto" su L'Unità di domenica 14 aprile:

[...] Dobbiamo riscrivere e inventare. Lo può fare una generazione che si affaccia alla vita e che l'attarversa ogni giorno con rischio e pericolo, lo si deve predisporre per i bambini che crescono e ci guardano. A questo capitalismo che ci bacchetta come spreconi dopo aver formato i nostri cervelli agli sprechi (perché gli sprechi inducono consumi fittizi e i consumi fittizi proventi concreti), a questa squadra di bancari - banchieri che ci costringe a comprare casa, ma ci impicca alle sue condizioni per pagarla, che ridicolizza il posto fisso, ma attraverso le banche lo pretende per poter partecipare a qualunque cosa, dobbiamo dare uno shock. [...] a me serve quello che serve. [...] Ad esempio prendo meno la macchina. [...] Ora vado in bicicletta [...] Finché non mettono l'Imu sulla bicicletta sono salvo.
Riscattiamoci con questa rivoluzione: avere meno bisogno possibile di quelli che ci vogliono polli d'allevamento, facendo scelte per loro incontrollabili ogni volta che si può. Io mi porto Geo a pedalare in montagna o al mare e la domenica al parco col pallone a giocare e dei paraurti in tinta me ne fotto. [...]

Questo articolo mi ha fatto tornare in mente una lettura che consiglio a tutti voi. Anzi, diffondetela tra amiche e amici, parenti e non parenti: "Elogio della bicicletta" di Ivan Illich.
A un dato momento si apre un bivio di portata storica: da una parte la strada che conduce a una maggiore libertà nell’equità, dall’altra l’illusione di una maggiore velocità progressivamente paralizzante. Rispettivamente: il mondo della bicicletta e quello dell’automobile.
Il testo, nonostante i cambiamenti socioeconomici e culturali e i decenni trascorsi, è di un’attualità straordinaria, tanto più che Illich aveva visto bene verso dove la società dell’automobile ci avrebbe portato.
La sua è un’analisi scientifica, lucida, che nulla concede al sentimentalismo, e forse sta proprio qui la sua forza. I motivi che ci devono spingere a cambiare direzione sono razionali e oggettivi e hanno una loro forza necessitante.
Illich parte dal dato che la nostra è una società energivora, che di energia si ingozza fino a soffocarne. Ora, il problema è stabilire la soglia energetica oltre la quale si arriverebbe al collasso: si tratta però di un compito politico, di quella che lui definisce una “controricerca”.
La distinzione fondamentale da cui partire è quella che passa tra trasporto e transito: il primo ha a che fare con la logica del valore di scambio e del monopolio radicale da parte del capitale industriale, mentre il secondo è prodotto dal lavoro ed è essenzialmente valore d’uso. Il trasporto, che tende a marginalizzare, fino a distruggerlo, il transito diventa progressivamente per gli individui un fattore alienante: “il passeggero che consente a vivere in un mondo monopolizzato dal trasporto diventa un angosciato e forzato consumatore di distanze delle quali non può decidere né la forma né la lunghezza”. L’alienazione arriva a tal punto che “incontrarsi” significa per lui essere collegati dai veicoli (si pensi a quanto oggi ciò sia vero anche sul fronte della comunicazione: l’invio di messaggi digitali è la nuova frontiera dell’alienazione dei corpi…).
Illich si spinge fino a dare una lettura “di classe” della deformazione spaziotemporale del movimento: dimmi a che velocità vai e ti dirò chi sei! Traduciamo nel presente e otteniamo: dimmi quant’è grosso il tuo Suv…
Vi è poi la questione dell’ostruzione del traffico da parte del trasporto (saturazione fisica e ambientale, piramide di circuiti inaccessibili, espropriazione del tempo in nome della velocità) e, connessa a ciò, la determinazione della velocità-limite entro la quale il trasporto potrebbe favorire il transito: Illich non esclude che entro quel limite vi potrebbe essere un importante fattore di ausiliarietà (l’ipotesi è quella di una velocità di punta di 40 km/orari!).
Illich conclude la sua analisi individuando tre modelli di mobilità nell’odierno scenario globale: società sottoattrezzate, che cioè non garantiscono il diritto all’automobilità dei cittadini nemmeno alla velocità della bicicletta; società sovraindustrializzate dove vige il dominio dell’industria del trasporto; ma tertium datur: “c’è posto per il mondo dell’efficacia post-industriale [...] per un mondo di maturità tecnologica”, che cioè vada verso la duplice liberazione dall’opulenza e dalla carenza, che sposti l’asse dal trasporto al transito, dal monopolio alla libertà, che operi una “ristrutturazione sociale dello spazio che faccia continuamente sentire a ognuno che il centro del mondo è proprio lì dove egli sta, cammina e vive”. Ma ciò, di nuovo, non è oggetto di deduzione, quanto piuttosto di decisione politica: la rotta da prendere non è segnata sulle carte!

sabato 31 marzo 2012

Daniela Nocella


Daniela Nocella è nata a Gaeta il 22/04/1982 e vive a Minturno (LT). In lei nasce fin da bambina l’amore per l’arte, la letteratura e la poesia e rivela di aver cominciato a scrivere da quando ha memoria. Proprio per scoprire tutti i generi e le varie culture artistiche decide di iscriversi al liceo linguistico. Anche la scelta della facoltà di Archeologia è dettata dalla volontà di sapere e scoprire quello che non è ancora stato visto e di riportare alla vita quello che ora è celato dalla terra e dall’oscurità del tempo. Ha partecipato a numerosi concorsi letterari. Nel 1997 ha ottenuto il premio di poesia “Tulliola” presso la città di Itri così come nel 1998 e nel 2001 presso le città di Fondi e Formia. Daniela ha pubblicato la raccolta di poesie “La Danza di Cento Petali Verdi” presso la casa editrice Libroitaliano nel 2007 e la raccolta “La Maschera dell’Allegria” presso la casa editrice ISMECA editore nel 2008. Numerose sono state le poesie scelte e pubblicate nelle varie antologie dalla casa editrice Giulio Perrone e dalla rivista letteraria Orizzonti come: “Donne e poesia”, “la Bellezza”, “Natale”, “Parole in fuga”, “Dedicato a… poesie per ricordare”, “il Federiciano”, “Verrà il mattino e avrà un tuo verso”, “Habere artem”, ….. . Nel 2008 ha partecipato alla trasmissione dedicata ai poeti contemporanei del sud Lazio della rete del sud pontino “ Il Golfo”.  Nel marzo del 2009 è stata ospite della trasmissione riguardante dibattiti culturali di Poeti e Poesia. Una delle più grandi passioni di Daniela è il canto. Attualmente è impegnata a scrivere non solo in versi, ma anche saggi e prose.

POESIE

L’avvento dell’estate

Respira, anima offesa, l’incenso
della gloria inattesa.
È partorito il grido di Nemesi
alle soglie del Paradiso perduto.
S’effonde per l’ onde dei
placidi cieli primaverili l’umore
giocondo di applausi levati dall’onte
profonde dell’illusione.
Libero pei venti il rosso sole
fulge e il sorriso virile
dell’estate trafigge ricordi
di infelici profeti.

O placido fuoco

Sepolto il ricordo di labili e
voluttuose parole.
Soffocata la memoria dell’amore
dolce e docile, creatura
proveniente dai cieli.
E come il fuoco arde possente,
distrugge ma il sogno protegge,
un giorno l’anima mia ribelle dimenticherà.
Obliato il rancore, sparse nel passato le ceneri
di uno stendardo che brucia,
ora, di vigore.
La vecchiezza inonderà di stanchezza
il rigoglioso lume.

Su ali d’Amore

Sboccia chiara passione
all’occhio sognante.
Sfuma alla vista rapita
l’intrepida memoria;
di giochi d’amore, di
bocche protese all’orecchio
di Virtù, lascive parole
d’abbandono sussurra.
E il cuore sussulta, strepita,
scolpita, al ventre s’acquieta,
fuggevole per l’apparizione soave e
al profumo di rose mature
a labbra volitive concede il
morso di fragole rosse.

Fanciullezza

Di tragici lumi riluce,
su selve di bestie furenti
maestosa, serena, possente s’impone.
Il corpo acerbo prigione alla mente
sveglia e la Giovinezza brama
che il Tempo riveli la sua voce.
Ma ansioso nocchiero per mari,
ora tranquilli, poi tempestosi,
lesto porta al largo dei ricordi e
vecchietto l’uomo bacio
a perduta Beltà concede.

L’autunno e l’anima

Segue l’autunno la rotta
d’uccelli migranti e
tiepide foglie prima riarse dal
sole di manti purpurei rallegrano la via.
Allegra malinconia saluta le viti
festanti che abbondanza
risplendono pigne al cielo fecondo.
E il vento festeggia grintoso
l’arrivo del temporale,
l’anima attende serena la
prossima estate.

Poema italico

O Patria mia miseramente seduta su
giunchi congiunti da miserevoli servi.
Tu che rechi nel petto gonfie ferite di
passati non ancora sepolti e lacrimi
profezie dal ventre della cristianità.
O Patria mia gloriosamente atterrita
da figli disastrosi che non liberarono
altro che peggiori destini per te
che lamenti sfinita un seno che
non nutre più.
O Patria mia che soffocasti gloriosi
discepoli per renderci un’unica
bandiera al mondo che ti umiliò e
che benedicesti il funebre martirio
di colui che ti guidò alla vita.
O Patria mia per cui non si versò sangue
abbastanza vermiglio da colorare il tuo
pallido viso, tu madre soffocata dal dolore,
tu madre consolata dall’Inno fedele, tu
padrona e serva del figlio indegno!

O Patria mia, quante parole,
quante blasfemie sul capo
tuo che Cristo incoronò di
spine, di lacerazioni che
ancora non si dimenticano.
O Patria mia, non posso salvarti, non oso
guardarti, non so confortarti e le mie
ardono ancor più forte nel cuore ribelle,
dalla prigione delle tue membra impedisci
all’anima di lodarti.
L’esercito che ti resuscitò, dall’oltretomba
un singulto riporterà, darà respiro
all’eroe che tornerà a guidare l’esule
spirito dei figli tuoi.
O Patria mia, tutti uniti per te, nuovamente
fratelli, nuovamente amati,
nuovamente vincitori!

L’uomo che soffre

L’uomo che soffre vive una vita silenziosa, misteriosa.
Pensa continuamente e riflette sulla realtà della morte.
Ha in viso una calma freddezza che lo fa sembrare
un fantasma, il suo pallore induce quasi terrore.
E mentre tutti lo guardano non capendo la ragione
di tanta pena, egli sogna, immagina di vivere lontano,
crea luoghi splendidi con la sua mente che può
solo pensare, con il suo intelletto che può solo sognare.
L’uomo che soffre è egoista, non condivide la gioia
del suo dolore. L’uomo che soffre è un poeta, che
scrive la sua disperazione.
(Tratta da “La Danza Di Cento Petali Verdi”)

Il Paradiso del Nulla

E sarò la Musa conduttrice nei Paradisi
universali e il Lete, acqua di eterno ricordo.
Musica furtiva dai flauti magici Apollo
emanò in respiri aulici.
Dal tragico cervello Sapienza verrà il mistero
d’un canto apocalittico.
Le membra partoriranno nuove speranze nel
mondo. Indra pose un pilastro tra cielo e terra
e tutto si mantenne speciale, Atlante sorreggerò
le emozioni e dalle dodici braccia un’arma
mortale ucciderà il rimorso.
Intelletto e passione all’unica vetta, mistero
e stupore all’esule anima, ragione e fede in
primogenito segno, ruscello di gemme e
perle colorate dal sangue.
(Tratta da “La Danza Di Cento Petali Verdi”)

Ritratto

Non servono ori all’intelletto,
il corpo non cinge virtù.
L’alloro non ha insaporito
alcun manto biondo e il
mantello purpureo è sulla
scultura che impressiona il poeta.
Non domande, non risposte,
ma la pura convinzione di rendere
ai sogni un’illusione migliore.
(Tratta da “La Maschera dell’Allegria”)

Vita e Guerra

Plasma tra le anime all’inferno
il male che conduce alla terra,
la guerra è nell’accordo tra
miseri contrari e i padri nascondono
i figli al demonio.
Il tempo ricorda e addormenta
le lucide speranze, quando
la memoria è una pozza di sangue
e la Vita, maga e strega, dimentica
i battiti d’ali d’Icaro al cospetto
del sole.
(Tratta da ”La Maschera dell’Allegria”)

Preghiera d’amore

Lenti fruscii di foglie galleggiano al vento,
al cielo risale il caldo nevischio di gelide estati.
Festeggia per l’aere dimesse lo splendido sole
che offusca, riscalda inconsolabile cuore.
E madre al Dio dell’amore più forte preghiera
pel figlio perduto rivolge in fervida fede.

Intime parole

Consola l’occhio che vede
la notte.
Abbraccia il tenero agnello
che carni
offre all’affamato mondo.
All’anima intime virtù da
parole stupite,
silenti, assordanti,
poeta concede.

A tutto ciò che ritroverò

Se la mia mano potesse scrivere quello che dal cuore
al cervello è celato.
Se la mia mente fosse capace di scordare ciò che il ricordo
infligge allo Spirito e se il Tempo, magnanimo signore, potesse consegnarmi la sua clessidra, ti darei la mia vita, il mio unico respiro .
Ti nutrirei del mio sangue, ti rialzerei dalla tomba con le stille della mia disperazione,
ti infliggerei le ultime mie parole. Invece t’ho lasciato andare
all’orizzonte, t’ho lasciato al creatore e spero che prima di
scagliarmi all’inferno il Signore mi conceda solo di sbirciare trai
beati la tua incancellabile visione.

Al mio caro Orlando

Le lacrime portano la vergogna
dell’insulto.
Le ferite sanguinano l’ignavia
del silenzio.
La tua tomba lamenta orgoglio
all’orecchio mio teso all’eternità.
Quanti ori prostrati alla lapide
tormentata e poi rossi tulipani
palpitanti al sole d’aprile
danzano al tumulto della scalpitante primavera.
Io porto l’anima delle tue battaglie,
l’onore del reietto e
riaffioro alla luce l’ammiraglia
affondata.
Sarò il tuo abisso e il mio
ventre partorirà l’immensa
tua lealtà.

Roma, eterno ricordo

Tu, immensa, eterna città del ricordo.
Tu, seduttrice, amante dell’illusione.
Nel tuo ventre di splendore combatte
la sua battaglia il barbone e
col cane abbandonato lotta per
un tozzo di pane sfuggito dal
morso del ricco signore.
Tu, madre della perfezione,
ogni giorno ti specchi nella
tua stessa disperazione e dall’alto
dei colli benedici i reietti
che in te cercano la Chimera
sognata dall’inferno e pregano
sotto il cupolone che il Dio
non si dimentichi il loro dolore.

Il ricordo del poeta

Lascia l’epitaffio d’un poeta
L’anima delle parole ……. .
Porgi all’idolo il tuo sguardo
come fiore posa per sempre.

Confusione

Non cercare di capire, non spiegare.
Abbandonati alla marea delle parole.
Sciogli la tua anima in
quest’oceano che è
fantasia, è immaginazione,
è un qualunque sogno.

Dedica

Trasforma in ricordi la malattia.
Sfigura l’incubo in ironia, la poesia.
Guarda la miseria dell’uomo con
le stridenti parole, schiude il
cuore affamato …….. .
Il sangue del dolore è appagato.

La nascita della poesia

Nata dal ventre del paradiso,
induco alla rinuncia.
Cresciuta col nettare della
passione, conduco nell’umiliante
oppressione.
Innamorata del dolore gioia proferisco
dalle labbra chiuse.
E cuore serrato da cinti aguzzi,
esplodo meraviglia.

Il sogno d’Apollo

Oh Musica,
sospiro della vita, essenza di
coccole piovute dai sogni.
Rendi eccelsa la purezza della
gloria e la tua voce è pioggia
di petali da un cielo vermiglio.
Danza, febbricitante, la musa lungo
il tuo cammino, porge bellezza
all’orecchio attento.
Canta la nota sciolta nel vento,
persa in mille anni di tempo e
la storia celebra ancora il
coro della tua nascita

giovedì 29 marzo 2012

Essere o apparire?

Uno dei più grandi problemi sociali e culturali del nostro tempo, in misura maggiore che in passato è quello relativo “all’apparire e all’essere”.
Nella realtà l’apparire implica: l’aspetto esteriore, unitamente alla personalità esibita dagli individui. Entrambi sono valori di cui ben sappiamo sono dubitabili: l’aspetto esteriore coinvolge tutta una serie di concetti oltre allo stesso paradigma fisico, come gli abiti, le credenziali, status sociale ecc…e la personalità che viene opportunatamente esibita da ogni individuo, la quale si matura psicologicamente in una scelta di manifestare sé stessi, implicando due condizioni essenziali: l’aspetto è il significato di me stesso che esibisco nell’immagine, la seconda è il mio lato interiore che voglio far trasparire di me. E’ facile intuire per esperienza quotidiana di ognuno di noi, come questi aspetti possono essere effimeri, deboli e spesse volte insignificanti. Una persona ci delude? E’ perché la credevamo diversa, ma essa fino a quel momento non ci aveva mostrato i suoi lati nascosti. Oppure il suo status sociale, il suo aspetto mi avevano dato una certa idea, ma poi invece era tutt’altra. E’ innegabile quanto siano numerose queste vicende nella vita di ognuno di noi, tuttavia è altrettanto verosimile come questi due valori seppur effimeri, sono in realtà limitati nella valutazione di una persona, ma frequentemente incidono notevolmente nei rapporti umani e sociali.
Gran parte del mondo si muove in virtù di questi due aspetti nonostante essi sono falsificabili, ed andando ancora più a fondo si può dire che gran parte delle persone non vivono assolutamente mostrando il proprio essere, quello autentico di sé stessi. Si potrebbero tracciare un infinità di esempi in merito, ma essendo ognuno di noi una cellula di un organismo molto più vasto che è l’umanità circostante, per quanto integerrimi è innegabile che gli altri producono un influsso in noi stessi, che sia negativo e positivo, almeno quanto noi influiamo su tutti gli altri.
La società moderna impone uno status e degli standard, ed ecco che orde di persone la inseguono, mentre non se ne rendono neanche conto, ciò perché gran parte dei rapporti sono dominati sull’apparire. Ciò ha portato innegabilmente ad un mondo che privilegia l’apparire in modo smisurato sull’essere che è rimasto sino ad oggi una terra di nessuno, poco importante e come si crede erroneamente persino non espandibile.
 L’essere quindi, è un qualcosa di profondamente diverso, l’essere è come siamo veramente, nel profondo, cosa e come pensiamo, è la parte di noi stessi con la quale dialoghiamo interiormente, ma essa raramente è mai esposta nella sua completezza, ciò perché spesso l’essere può collidere severamente con l’apparire.
 Tutti i pregiudizi, contrasti, divisioni, nascono da questo stato di cose, da un apparire effimero che crediamo infine costituisca l’essenza di un individuo, piuttosto che nella verità dell’essere ossia di come un determinato individuo è realmente. Ciò comporta inevitabilmente a credere all’esistenza di individui che ci circondano che in verità non sono come crediamo, essi possono essere molto migliori o molto peggiori, non importa al momento questa considerazione, ma l’importante è che ci siamo circondati di fantasmi e noi stessi finiamo per essere uno spettro in mezzo a molti altri. Tizio ha delle credenziali, dice determinate cose, appare potente (per citare un esempio) e mi convinco che egli stia nel giusto, mentre in realtà il suo essere è completamente sbagliato ma a me sconosciuto.
Il contrasto tra l’essere e l’apparire, è ciò che porta l’umanità moderna a commettere gli stessi errori del passato, nulla ancora oggi è cambiato.

Tutto pare fatto per apparire e quello che appare è destinato a essere visto, sentito, gustato, odorato. L'uomo sembra essere il centro di questa rappresentazione: egli ne è il primo spettatore e, nel contempo, l'interprete principale.
Apparire significa mostrarsi agli altri e questo vuol dire avere o cercare spettatori: esibirsi, mostrarsi, recitare, essere individuati e percepiti e, dunque, essere accettati, ammessi, legittimati al bisogno d'amore e al suo appagamento. Così inizia quel lungo e doloroso percorso dell’apparire che conduce al travestimento per la recita di un copione. La vita, pur essendo continuamente mobile, per un destino burlone tende a calarsi in una «forma» in cui resta prigioniera e dalla quale cerca di uscire per assumere nuove forme, senza mai trovare pace.
Inseriti in un determinato contesto o società, a noi stessi assegniamo una maschera, obbligandoci a muoverci secondo schemi ben definiti che accettiamo o per pigrizia o per convenienza senza avere mai il coraggio di rifiutarli, anche quando contrastano con la nostra natura. Sotto la maschera il nostro spirito freme per la sua continua mutabilità, ma ci freniamo sia per non urtare contro i pregiudizi della società, sia per la nostra tranquillità, perché, nel mondo mutevole ed enigmatico in cui viviamo, quella nostra «forma», o maschera fissa, è l’unico punto fermo al quale ci aggrappiamo disperatamente per non essere travolti dalla tempesta.

Il problema dell’essere o apparire, inteso come le modalità dell’animo e la voglia di fare apparire queste in modo diverso dalla verità con lo scopo di affermarsi nella società, e forse un modo di pensare consumistico che è dato dall’eguaglianza “io sono = ciò che ho e ciò che consumo”.

Scrivo queste poche considerazioni perché penso che la maggior parte delle persone con cui ho a che fare quotidianamente - al di fuori della cerchia dei miei amici - sia succube dell'apparire in luogo dell'essere e io stesso forse in questi ultimi anni mi sono posto agli occhi di queste persone in un modo che ora ritengo sbagliato, perché ho convogliato di me l'immagine di una persona semplice, un po' sfigata e di "fibra tenera". OK ad essere buoni, ma coglioni mai.
Sono innamorato di una ragazza che è uscita recentemente da una pluriennale storia di convivenza ed è ancora legata a lui con il pensiero, molto probabilmente è un legame più con il sentimento di affetto che ancora prova che il sentirsi ancora legata alla persona stessa, o forse è un innamoramento dovuto alla fisicità, all'aspetto e al modo di porsi di questa persona. Se la seconda ipotesi fosse vera mi viene da domandarmi da cosa questo sentimento sia realmente sostanziato e poi, quando un giorno la di lui bellezza sfiorirà, che cosa rimarra?
Dico a questa ragazza di non rimanere innamorata della sua bellezza perchè quella un giorno appassirà. Spero un giorno che ella potrà innamorarsi della mia semplicità, dei miei modi di fare, del modo in cui  riesco a far sorridere la gente. Innamorati di ciò che ho dentro di me, perchè quello non cambierà e non sfiorirà con il passare degli anni! Innamorati delle mie gioie, delle mie pazzie. Innamorati anche delle mie lacrime. Innamorati. L'aspetto non è tutto, innamorati di ciò che ho nel cuore!

venerdì 23 marzo 2012

Sulla crina


Per il titolo prendo a prestito le parole della poetessa Silvia Rosa per descrivere un particolare anatomico.
Conosco una ragazza che mi ha stregato, sono pazzo di lei, penso che abbia gli occhi più belli del mondo. Adoro il suo incarnato, sembra una bellissima bambola di porcellana, le sue gambe, il suo sorriso. Ma c'è una cosa in particolare che adoro di questa ragazza, M., è l'incavo del suo collo. Un giorno per gioco le ho sfiorato delicatamente l'incavo con un dito e ho adorato la luce che ha illuminato il suo volto quando le ho strappato un dolce sorriso. Ho voluto raccogliere una piccola serie di citazioni che riguardano questa parte del corpo, voglio condividere queste parole con voi. Buona lettura.

Il viso di lei appoggiato nell’incavo del mio collo è il pezzo mancante al puzzle sconnesso della mia vita, la chiave di tutto, il centro della circonferenza. Le sue gambe seguono i miei passi, che inventano la coreografia disegnata dal primo ballo di un uomo e una donna.
Bianca come il latte, rossa come il sangue - Alessandro d'Avenia.
***
.. Mi sfiorò l' incavo del collo con le sue labbra.
Provai una strana sensazione, piacevole, che mi rendeva inerme e vulnerabile. Il calore del suo respiro su di me si contrapponeva alle dolci e fredde labbra. Il solo ricordo ora mi uccide.
***
Le sue labbra si muovevano sull'incavo alla base del collo. "Non per scatenare prematuramente l'ira", sussurò, "ma ti dispiacerebbe spiegarmi cosa c'è che non va in questo letto?". Prima che potessi rispondere, prima che potessi anche solo concentrarmi per dare un senso alle sue parole, si girò sul fianco e mi tirò sopra di sè...
***
PANACEA
Ieri notte
quando ragnatele di ansie tristi e soffocanti
il mio Sonno scheggiato
Morfeo vinto
da umida angoscia strisciante
Ho pensato a te.
Bellezza di occhi sinceri
il modo di guardarci dentro
senza dire niente.
Ho sentito.
Le tue mani
Adoro
suonare leggere la mia pelle nuda.
Le tue
tenere, intorno al mio viso
quasi piango di Gioia
Sei Tu
il modo in cui mi vuoi
ritmo
i nostri passi sull’asfalto
sussurri il mio nome
espressioni buffe
e ho Sorriso
sì.
La strada del tuo odore
Io Amo
oziare nell’incavo del nostro collo
brividini

i tuoi Baci.
Non è mai stato così
lo so
Non mi sono mai sentita così
a posto
con me stessa.
Come se potessi lasciare fuori
semplicemente
quelle cose orribili
che mangiano da dentro
Posso chiudere il cancello alle spalle
percorrere il vialetto alberato
il Nostro Sogno sì
perdere le dita nel pelo soffice e striato
Abercrombie, il suo nome
infilare le chiavi nella toppa e
aprire la Porta di Casa
Ieri notte ho trovato l’antidoto
Ho pensato a te.
La Mia Clessidra
la Sabbia calda e setosa
l’unica a cullarmi e darmi conforto.
Ora provo a rifarlo
Voglio
addormentarmi nel pensiero di Te.
***
Il mio posto è nell’incavo del tuo collo, intorno alle tue spalle, in mezzo alle tue dita.
***
"Jak sente qualcosa che attraversa tutto il suo essere. Una tale tenerezza. Una tale dolcezza. Quando ha provato una consolazione così grande? Mira lo copre di una pioggia di baci. La pioggia lieve del pomeriggio, che lava e dissolve il passato. Si sente purificato, vivo e, così come la vita si risveglia sotto la pressione dolce ma persistente della pioggia sulla terra, ecco qualcosa in lui, un risveglio, il timido affacciarsi di nuove possibilità. Se la stringe contro, con una forza che spera esprima tutto ciò per cui gli mancano le parole. Lei lo comprende. Di questo è certo. Forse, un giorno, troverà le parole. Ma per ora non ha che un mormorio da deporle nell’incavo del collo: Mira, oh Mira, mia Mira..."
***
Riassaporerò le tue labbra che posatesi sull'incavo del collo mi invaderanno di calore; le tue mani, pronte a lacerare il mio maglione, scivoleranno avide sul mio corpo privo di vestiti. Le mie braccia ti avvolgeranno in una morsa d'amore ed i nostri cuori, l'uno sull'altro, esploderanno di piacere.
***
<<mi sembra che ora starmi vicino sia...molto più facile,per te>>
<<ti sembra...>>mormorò,sfiorandomi l'incavo del collo con la punta del naso.Sentii la sua mano,più leggera delle ali
di una farfalla,ravviare all'indietro i miei capelli bagnati per scoprire la pelle dietro l'orecchio,posarvi le labbra.
<<molto,molto più facile>>dissi,senza che mi uscisse il fiato.
<<mmm>>
<<perciò mi chiedevo...>>cercai d ricominciare,ma persi il filo del discorso perchè le sue dita avevano preso a seguire
il profilo del mio collo,fino alle spalle.
<<sì?>>mi alitò.
<<secondo te>>la voce mi tremò,con mio imbarazzo,<<qual è il motivo?>>
Sentii la sua risata vibrarmi sul collo.<<la ragione domina sugli istinti>>
Mi allontanai ritraendomi;lui rimase impietrito-non lo sentivo più nemmeno respirare.
Incrociammo i nostri sguardi attenti.La sua espressione si fece più rilassata,ma allo stesso tempo perplessa.
<<ho fatto qualcosa di male?>>
<<no...al contrario.Mi stai facendo impazzire>>